Non solo Zeppelin, il ritorno dei Greta Van Fleet
The Battle At Garden’s Gate è una prova di maturità per la band del Michigan, che resta fedele al proprio sound anni ’70 ma cerca una propria strada più personale
Greta Van Fleet sì, Greta Van Fleet no.
Iniziamo col no: sono poco originali, marcatamente derivativi (oscillano tra i Led Zeppelin e i Rush, scimmiottati con grande imparzialità e senza praticamente andare mai oltre i canoni dei Maestri), più mediatici che artistici.
Ed ecco il sì: sono giovani, freschi, pieni di sana energia e altrettanto sana ingenuità. Di più: sono coraggiosi nel riproporre con estrema fedeltà filologica gli stilemi dei ’70, cioè del decennio in cui è stato creato il Vero Rock. E ancora: sanno suonare e comporre.
Chi scrive opta per il sì. Con un’aggiunta non proprio secondaria: funzionano.
Funzionano loro e funziona The Battle At Garden’s Gate, il loro secondo album, pubblicato nella primavera 2021 da Lava Records, label del gruppo Universal , con la produzione di Greg Kurstin, mago della consolle di mezzo jet set della scena musicale.
I tre fratelli Kiszka (il cantante Josh, il chitarrista Jake e il bassista-tastierista Sam) e il batterista Danny Wagner approfondiscono la loro formula ’70 oriented e la arricchiscono con citazioni psichedeliche e sconfinamenti nel prog. Il risultato di questa evoluzione si percepisce nella maggior durata delle dodici canzoni dell’album (oscillano tutte attorno ai cinque minuti) e nella maggiore complessità sonora rispetto al precedente Anthem Of The Peaceful Army (2018).
L’impronta psycho-progressive emerge a partire dall’open track Heat Above, che apre con gli accordi evocativi dell’organo Hammond e si lancia in un bel crescendo arioso, marcato da un giro di chitarra acustica westcoastiano e da cori epici. Un bel pezzo che richiama gli Zeppelin di Houses Of The Holy, su cui spicca l’ugola di Josh, una sorta di Robert Plant 4.0.
Più hard, la seguente My Way, Soon, che si regge su un riffone alla Rush sorretto dall’ottimo lavoro della ritmica (notevoli i contrappunti del basso). Su tutto, spicca il falsetto del cantante che scimmiotta i registri alti di Plant e Geddy Lee. L’omaggio ai ’70 diventa sfacciato nell’assolo di chitarra tutto pentatonico.
La bella Broken Bells è il pomo della discordia dei critici, parte dei quali ha bollato questa ballad dalla melodia struggente come una clonazione di Stairway To Heaven. In realtà, i fratelli Kiszka si sono dimostrati più furbi: hanno citato con intelligenza il grande classico zeppeliniano, di cui hanno ripreso alcune suggestioni armoniche e il crescendo (a tacere del lungo assolo di Jake, che sembra un provino del Page degli anni d’oro), ma hanno impostato il brano in maniera originale: Broken Bells non è un madrigale in crescendo, ma si regge su dinamiche decisamente più varie, che danno un risultato gradevole e, a modo suo, originale. Le citazioni ben fatte non sono mai un peccato. Anzi…
Stesso discorso per la movimentata Built By Nations, che cita sfacciatamente Black Dog nell’attacco e nel riff portante, ma si evolve su un refrain arioso. Certo, Josh emula ancora Plant a oltranza. Ma il risultato è piacevole, perché evocare non è necessariamente copiare.
In Age Of Machine, emergono le influenze prog. Notevole, al riguardo, il riff arpeggiato che spicca su un ritmo cadenzato e pieno di controtempi. Ottimo anche il crescendo a metà del brano che sfocia in un efficacissimo assolo di chitarra.
Tears Of Rain è un’altra ballad, anch’essa piena di riferimenti settantiani (a proposito di citazioni: non ricorda un po’ gli Eagles la melodia con cui attacca il refrain?), che si regge sul bel contrasto tra l’arrangiamento delicato e l’interpretazione potente, a tratti sopra le righe, di Josh.
I richiami prog, declinati alla Rush, tornano prepotenti in Stardust Chords, che parte con un altro giro dell’Hammond e si evolve in un hard potente e dinamico, in cui spiccano i ricami elettroacustici della chitarra.
Nell’ariosa e westcoastiana Light My Love predominano le sonorità acustiche e non si può proprio non notare il bel gioco armonico tra il pianoforte e la chitarra su cui si libra la bella melodia del cantato.
Le sonorità si accendono di nuovo e virano sull’hard in Caravel, dove il riff zeppeliniano apre a soluzioni prog.
Un’introduzione cinematica di mellotron apre l’epica The Barbarians, in cui l’andamento hard coesiste alla grande con i riferimenti prog. I Rush sono senz’altro gli ispiratori principali di quest’ottimo pezzo, ma come non vedervi anche lo zampino degli Uriah Heep di Return To Fantasy?
Trip The Light Fantastic è un altro omaggio ben riuscito ai giganti del rock canadese, grazie al riff portante eseguito da tastiere e chitarra in perfetto sincrono. Tuttavia, non mancano i richiami agli Zeppelin di Physical Graffiti, perché è impossibile pensare i Greta Van Fleet senza l’influenza dei giganti albionici.
Gli influssi prog marcano anche la conclusiva The Weight Of Dreams, una ballad suggestiva, dalla melodia struggente e strutturata in crescendo. Ottima la performance di Jake, che si sbizzarrisce in un lungo assolo nella parte finale.
In definitiva, non c’è da urlare al capolavoro. Tuttavia, The Battle At Garden’s Gate è un ottimo album, ben concepito, suonato come si deve e arrangiato divinamente.
Merito anche di Kurstin, che è riuscito ad adeguare le spigolosità del sound anni ’70 alle esigenze del mainstream, perché in fin dei conti è proprio lì che mirano i Greta Van Fleet.
E le critiche di derivatività a volte eccessiva? Non sono infondate, ma non provano niente, perché da trent’anni a questa parte nessuno ne è immune: le hanno subite, a loro tempo, i Green Day, accusati di essere i cloni adolescenziali dei Ramones, e, molto prima, se le beccarono i Guns N’Roses, su cui certi addetti ai lavori infierirono sadicamente a botte di paragoni ingenerosi con gli Aerosmith e i Rolling Stones.
Per il quartetto del Michigan valgono quindi le stesse cose che valgono per i big del nuovo punk e per i padri dello sleaze metal: è solo questione di tempo e di capacità. Se i fratelli Kiszka riusciranno a maturare e ad acquisire maggiore personalità, saranno metabolizzati e subiranno meno il gioco al massacro di certa critica, che non perdona il successo ai giovani. Altrimenti, finiranno in reflusso.
Per il momento godiamoceli così come sono: i loro tuffi nei magici Settanta sono ben fatti. Ed è meglio immergersi nelle sonorità di quel decennio che perdersi dietro a sperimentalismi pretestuosi.
Per saperne di più:
Il sito ufficiale dei Greta Van Fleet
Da ascoltare (e da vedere):
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