How Blue Can You Get, un ricordo in note di Gary Moore
Inediti e cover di grande blues per l’album postumo del compianto chitarrista irlandese
Traduciamo subito il titolo, per rendere la magnifica ambiguità esistenziale di chi vive (per) il blues: How Blue Can You Get vuol dire, contemporaneamente, quanto puoi diventare triste o quanto puoi diventare blues.
E c’è da dire che un titolo più azzeccato BB King non poteva sceglierlo per il suo classicone del 1964, un bellissimo dodici battute dai colori notturni. E non potevano sceglierlo gli eredi del compianto Gary Moore per dare un nome alla recente raccolta di inediti e cover del grande chitarrista irlandese, forse uno degli ultimi eredi bianchi della tradizione black.
L’album, pubblicato in primavera dall’olandese Mascot (label specializzata in guitar heroes), è composto da otto brani, di cui quattro cover, e quasi tutti outtakes, cioè scarti di produzione. E che scarti, è proprio il caso di dire: Moore aveva una rara capacità interpretativa, grazie alla quale rendeva unico ogni pezzo, proprio o altrui.
E la scaletta di How Blue Can You Get lo ribadisce alla grande.
L’ultimo Gary Moore, quello più conosciuto al grande pubblico, era un artista sofferente, che aveva mollato il metal per rituffarsi in quelle radici rock blues da cui era partito sotto l’irresistibile influenza di Jeff Beck. Ma era anche un musicista maturo, capace di dosare i suoi virtuosismi con grande efficacia e di misurarsi senza timori reverenziali coi mostri sacri del suo genere preferito.
Non a caso, l’album parte con una versione ruvida e scatenata di I’m Tore Down, una pietra miliare di Freddie King, che vanta numerose cover (tra cui quella, anch’essa classica, di Eric Clapton) e non manca mai nelle scalette delle blues band. Mr Moore riesce a farla sua, cantandola con la sua voce roca e arricchendola con i fraseggi distorti della sua Les Paul che infilzano i tappeti dell’Hammond.
Notevolissima anche la performance nella strumentale Steppin’ Out. Il classico di Memphis Slim risulta letteralmente stravolto: non c’è il sax dell’originale, il ritmo è più deciso e veloce e la chitarra, regina incontrastata, lancia frasi incendiarie in stile southern, che ricordano (a proposito di illustri scomparsi) il leggendario Stevie Ray Vaughan.
In My Dreams, il primo inedito della raccolta, è una ballad struggente piena di autocitazioni: il tema iniziale e le parti strumentali ricordano Parisienne Walkways e il refrain sembra una rimanipolazione di Still Got The Blues. L’originalità non è il forte di questo bel brano. Il quale, tuttavia, ribadisce che, nel caso di Moore, non è importante quel che fa ma come lo fa (altrimenti che bluesman sarebbe?).
La title track, come già detto una rivisitazione della hit di BB King, diventa uno scontro a distanza tra titani, in cui l’allievo dimostra di aver appreso alla grande la lezione e prova a dimostrare al Maestro di averlo raggiunto.
Infatti, sotto i polpastrelli dell’irlandese le frasi del gigante del Mississippi acquistano nuova vita: Moore gigioneggia tra una strofa e l’altra, con le distorsioni abbassate per far gustare meglio i licks agli ascoltatori più scafati, che hanno già l’originale nelle orecchie, e si lancia qui e lì in accelerate un po’ isteriche, perché sa benissimo che la lentezza e non è tutto e il tocco si esprime anche attraverso le impennate.
Decisamente più torrida, Looking At Your Picture è l’altra canzone totalmente inedita del Nostro. È un southern rurale con pezzi di elettronica, in cui si mescolano la tradizione del Delta (la chitarra resofonica tutta slide, suonata col bottleneck) e l’innovazione (la base ritmica costituita da un loop di batteria).
Love Can Make A Fool Of You è un esempio della capacità di reintepretarsi tipica di Gary Moore: questo brano, in origine era un pop rock inserito come bonus track nel cd di Corridors Of Power (1982) e risentiva sin troppo dello stile dell’epoca. Invece, la versione riproposta in How Blue Can I Get diventa una ballad lenta a dodici battute, eseguita con un piglio brillante che disintegra letteralmente la prima versione.
Lo slide, il bottleneck e le accordature aperte sono di nuovo protagonisti in Done Something Wrong, la rivisitazione dello standard di Ellmore James, resa in chiave stomp e sonorità leggermente più rock.
Una chicca per chiudere: Living With The Blues è un piccolo gioiello dal refrain malinconico, eseguito con grande sensibilità e maestria. Ma è anche un enigma musicale: composto a inizio millennio, è stato escluso all’ultimo momento dalla scaletta di Back To The Blues (2001), per motivi mai chiariti. Tuttavia, questo brano non è propriamente un inedito perché è riemerso in due occasioni: Lost Episode-Rare Studio Tracks 1978-2001, una raccolta di demo, bootleg e rarità del grande musicista di Belfast, e Sound Minds, una compilation a scopi benefici di brani di artisti irlandesi.
Il packaging dell’album è piuttosto avaro di informazioni, quindi non è dato sapere chi siano i musicisti che hanno accompagnato Moore nelle canzoni.
Nel dubbio, è possibile ipotizzare che siano il bassista Peter Reese, il tastierista Vic Martin e i batteristi Darrin Mooney e Graham Walker. In pratica, i membri della backing band che ha accompagnato mr Moore nel suo ultimo ventennio. Sono stati tutti molto più che semplici turnisti, quindi la menzione è doverosa.
How Blue Can You Get è l’album che ci voleva per riscoprire Gary Moore. Soprattutto, per capire quanto avrebbe potuto dare ancora alla musica se quel maledetto infarto non lo avesse stroncato dieci anni fa.
Gary Moore è morto, viva Gary Moore.
Per saperne di più:
Il sito ufficiale di Gary Moore
Da ascoltare:
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