Libertà a rischio o solo paranoie?
Le nuove maggioranza blindate dall’Italicum potrebbero intaccare i diritti civili del Titolo I attraverso l’abuso della riserva di legge
Val la pena soffermarsi sul principale motivo per cui varrebbe la pena di votare un no convinto. Non fosse altro perché riguarda l’aspetto della nuova Costituzione per cui la riforma della sua seconda parte incide sulla prima e tocca direttamente la vita quotidiana di tutti noi. Nessuno escluso.
Chiariamo un po’ questo passaggio: si è detto che le modifiche riguardano solo la seconda parte delle Costituzione, che è dedicata agli organi dello Stato e al loro funzionamento, e non la prima, che disciplina i diritti politici e sociali dei cittadini. Formalmente è così. Ma dal punto di vista sostanziale? Siamo sicuri che un governo potenziato da un sistema elettorale che consente maggioranze artificiali e nei confronti del quale i contrappesi e i filtri risulterebbero indeboliti dalla riforma non possa alterare l’assetto dei diritti civili? Attenzione: non argomenteremo sul nulla, ma basandoci su precedenti storici, attuati o tentati.
Già: il nostro è il Paese delle emergenze continue e delle leggi speciali. L’altro ieri fu il terrorismo, ieri era (e in buona parte è tuttora) la mafia, oggi chissà. Il nostro è il Paese in cui le libertà, lette e viste soprattutto dal punto di vista di un ceto imprenditorial-professionale spesso ansioso di evadere il fisco, hanno fatto (e fanno) a pugni col “sociale”, interpretato in troppi casi come mera fabbrica di clientele.
Ovviamente, la partita si gioca ben oltre gli opposti desideri degli aspiranti padroni delle ferriere 2.0 e degli aspiranti assistiti in versione beta. E riguarda la parte più sottovalutata e meno approfondita dalla dottrina costituzionale non immediatamente legata e esigenze forensi: il Titolo I della parte prima, che comprende gli articoli da 13 e 28 ed è dedicato ai Rapporti civili. Di questi articoli, sono importantissimi gli articoli che vanno dal 13 al 21, in cui è dettata la disciplina delle libertà: personale (art. 13), domicilio (art. 14), corrispondenza (15), di movimento (16) ecc., fino ad arrivare a quella, controversissima nel nostro sistema, di stampa, inclusa nell’articolo 21, dedicato più genericamente alla manifestazione del pensiero.
Il pericolo, volendone scovare uno, consiste nella struttura della disciplina costituzionale che si basa in tutti i casi, in maniera più o meno esplicita e articolata, su un’enunciazione di principio e sulla riserva di legge.
Prendiamo ad esempio l’articolo 13: la norma esordisce con un’affermazione lapidaria: «La libertà personale è in inviolabile». Tuttavia, il comma successivo ammette le ispezioni, le perquisizioni ed eventuali altre restrizioni della libertà personale «per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge».
Stesso discorso per l’articolo 14 secondo cui «Il domicilio è inviolabile» ma i sequestri e le perquisizioni possono essere eseguiti «nei casi e modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la libertà personale».
Allo stesso modo nell’articolo 16 garantisce la libertà di soggiorno e di circolazione nel territorio nazionale «salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza».
Questo schema, enunciazione più riserva, si ripete per tutte le libertà, compresa quella di manifestazione del pensiero, e quindi di stampa, che è caratterizzata dal caos normativo e da una giurisprudenza disordinata, spesso ai limiti della censura (l’allarme non lo lanciamo noi, ma proviene dall’Osce).
Il problema, ovviamente, non è della Costituzione, che in questo modo riflette la sua ispirazione liberale, ma potrebbe essere delle leggi.
Infatti, il sistema legislativo prevalentemente monocamerale previsto dalla riforma e le maggioranze blindate attorno all’esecutivo garantite dall’Italicum potrebbero assicurare la mano libera a un governo non bene intenzionato o, comunque, deciso a gestire per le spicce il dissenso pubblico. Nulla di più facile, allora, che approfittare di qualche emergenza, e nel nostro Paese non ne mancano mai, per interpretare la Costituzione e riempire la riserva di legge fino a svuotare le garanzie. Il tutto senza toccare nessuno degli articoli del Titolo primo, che resterebbero formalmente inviolati.
Solo paranoia? Sarà. Ma val la pena di rilevare, per restare nella suggestione, che anche le garanzie del controllo di costituzionalità si abbasserebbero non poco nel nuovo sistema. Si prendano gli esempi della Presidenza della Repubblica, della Corte costituzionale e del Consiglio superiore della magistratura.
Il partito di maggioranza artificialmente assoluta peserebbe di più nell’elezione del Presidente, che avverrebbe con una formula più semplificata rispetto a quella attuale. Il capo dello Stato, perciò, manterrebbe le sue prerogative di “architrave del sistema”, ma diventerebbe il garante più della maggioranza che l’ha eletto che non della Costituzione. In parole povere, sarebbe difficile ritrovarci un altro Ciampi capace di opporsi ai desideri di Berlusconi quando questi superino i limiti costituzionali.
E la Consulta? La maggioranza vi peserebbe di più grazie al combinato disposto tra sistema prevalentemente monocamerale ed Italicum. L’articolo 135, che disciplina la composizione della Corte Costituzionale in apparenza cambia poco, poiché stabilisce che «La Corte costituzionale è composta da 15 giudici, dei quali un terzo nominato dal Presidente della Repubblica, un terzo dalle supreme magistrature ordinarie ed amministrative, tre dalla Camera dei deputati e due dal Senato della Repubblica». Facciamo due conti. Sappiamo già che la maggioranza artificiale prodotta dall’Italicum consentirà di non cercare neppure l’accordo con la minoranza per la designazione dei giudici da parte della Camera, perciò i tre espressi da Montecitorio potrebbero tranquillamente “appartenere” alla sola maggioranza, Sappiamo inoltre che il Presidente potrebbe essere una figura più gradita alla maggioranza più che un “saggio” espresso dal compromesso tra le varie forze politiche, come finora più o meno è avvenuto, e che quindi i “suoi” giudici potrebbero essere anche giudici della maggioranza. E, se le probabilità non sono opinioni, ci sarebbe anche il rischio che uno dei due giudici del Senato potrebbe essere “gradito” al governo.
Più sfumato il discorso sel Csm, la cui composizione potrebbe essere orientata in senso filogovernativo da due elementi, “di fatto” (cioè i rapporti tra singoli magistrati e politici), che peserebbero di più in un sistema basato sul superpremierato, e di diritto. Sui secondi non c’è nulla da dire, perché si resta nell’imponderabile e occorre evitare i processi alle intenzioni. Sui primi vale lo stesso discorso fatto per la Consulta: l’articolo 104 prevede che un terzo dei membri del Csm sia eletto da Camera e Senato in seduta comune e chiede due maggioranze qualificate: i tre quinti dei parlamentari per i primi due scrutini e i tre quinti dei presenti dal terzo scrutinio in avanti. Nel primo caso abbiamo un numero certo: 435 voti tra deputati e senatori. Nel secondo caso potrebbero bastare 400 voti. Se si considera che la Camera avrà comunque una maggioranza certa e che circa la metà dei senatori potrebbero essere espressi dalla stessa maggioranza la possibilità che il partito-governo dica la sua anche nell’organo di autogoverno dei giudici non è remota. Anzi. Serve altro?
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