Tutta la verità sulla storia secondo Angelo Del Boca
Lo storico Pierluigi Romeo di Colloredo Mels fa il tagliando alla produzione del giornalista novarese scomparso di recente: era uno scrittore di razza, ma forzava non poco i documenti. La polemica con Montanelli? Aveva ragione Indro. Il nuovo antifascismo? Una montatura a uso politico. E i gas? Li usammo ma non in maniera determinante. A breve un libro verità sull’argomento
La nuova caccia alle streghe non risparmia nessuno. Per finire nel mirino dei novelli inquisitori non serve l’eresia: bastano lo spirito critico e il non allineamento con vecchie tesi che riemergono periodicamente.
È capitato allo storico Pierluigi Romeo di Colloredo Mels, periodicamente additato come neonazista nelle polemiche dentro e fuori la rete. La sua colpa? Essere un esperto di storia militare che scrive sulla base di documentazione inoppugnabile.
Ma per i nuovi Savonarola antifa i contenuti possono essere optional. E infatti le accuse mosse a Colloredo si basano su due cose piuttosto superficiali: la vecchia vicenda del fotomontaggio in cui lo storico romano figurava in divisa da SS accanto a Himmler e la collaborazione con Il Primato Nazionale, l’organo di Casa Pound. Basta davvero questo per bollare l’autore di trentacinque volumi documentatissimi?
Evidentemente sì. «A me questa nuova ondata di antifascismo sembra una grossa montatura, dovuta essenzialmente a ragioni politiche», spiega lo storico, che a breve pubblicherà un libro che potrebbe procurargli nuove polemiche. Il titolo provvisorio del volume è L’ala pesante e riguarderà un argomento piuttosto delicato: l’uso di armi chimiche da parte dell’aeronautica militare italiana.
Prologo: neonazista a chi?
Prima di entrare nel vivo, sono doverose alcune domande: Colloredo è neonazista? O ha mai provato nostalgie per il Ventennio?
Assolutamente no, a tutt’e due i quesiti. Non lo sono – né potrei esserlo – anche per motivi che riguardano la storia della mia famiglia: mio padre fu ufficiale del Regio Esercito durante la campagna di liberazione. Lui era di stanza in Croazia, da cui smobilitò alla fine del conflitto. Rimase in Abruzzo e non aderì alla Rsi, come fecero altri per svernare o sbarcare il lunario, lo dico con tutto il rispetto per chi ha combattuto da quella parte. Non appena si spostò il fronte, riprese a combattere contro i tedeschi. Ma non lo fece in nome di Tito e Stalin, ma da militare qual era e per l’Italia. In omaggio al suo esempio, sono stato iscritto per anni all’Associazione nazionale combattenti regolari della guerra di liberazione. Visto che ci sono, vorrei ricordare che un altro mio parente, Franz Ferdinand Colloredo Mansfeld, fu abbattuto in Normandia, dove si trovava in missione in qualità di Wing Leader della Raf. Lui era un ufficiale austriaco emigrato in Gran Bretagna dopo l’Anschluss. Infine, un mio prozio, Gopplero conte di Trauttenberg, fu medaglia d’oro della Resistenza. Non mi pare, a questo punto, di dover aggiungere altro circa mie presunte simpatie.
Non coltivo nostalgie per un certo passato anche per motivi di famiglia: mio padre lottò i tedeschi, un mio avo morì in Normandia e un mio prozio fu medaglia d’oro della resistenza
E col fotomontaggio di Himmler come la mettiamo?
Racconto per l’ennesima volta come sono andate le cose: mi fu inviato in versione originale con due didascalie offensive: «Fascista di merda» e «Morte al fascismo libertà al popolo». Io tagliai gli insulti e lo pubblicai su Facebook per far capire a questi provocatori che non avevo paura di loro. Fui segnalato e quindi espulso dal social. In questa vicenda mi indigna soprattutto una cosa: essere stato accostato a un allevatore di polli dalle idee criminali e piuttosto bizzarre. Ma su questo punto non mi dilungo, visto che del pensiero di Himmler si è occupato in maniera più che brillante uno studioso del calibro di Giorgio Galli.
Non possiamo scegliere a chi farci accostare…
Lo so, avessi potuto scegliere, sarei stato lusingato dall’accostamento a Guderian o a Rommel.
Non a caso due militari.
Io direi due grandi militari che pagarono il loro non allineamento al regime. Il primo con la destituzione per aver criticato Hitler, il secondo col suicidio.
Resta la questione di Primato Nazionale.
Al riguardo, dico due cose. Innanzitutto, Il Primato Nazionale è una testata che gode di regolare distribuzione, sia in rete sia su carta. Non ha avuto problemi di alcun tipo, se non su alcuni social: perché non dovrei scriverci? La seconda cosa riguarda me: ho scritto per Primato Nazionale le stesse cose che scrivo per Storia in Rete, Nova Historica, Fronti di Guerra, Ritterkreutz e Storia Rivista, di cui sono redattore. Sono tutte riviste specializzate grazie alle quali divulgo i risultati del mio lavoro, che è quello di storico abituato a lavorare sui documenti e, visto che mi occupo di Storia militare, a tener presente il dato giuridico, senza il quale è impossibile analizzare il fenomeno bellico in maniera completa e spassionata. Aggiungo: scriverei le stesse cose senza alcun problema per Repubblica o per Il Manifesto. Ma tant’è: c’è ancora chi si ostina a preferire le interpretazioni ideologiche all’analisi storica.
Magari perché paga.
Senz’altro.
La caccia alle streghe
La recente scomparsa di Angelo Del Boca ha riacceso vecchie polemiche e riaperto ferite altrettanto vecchie. E il dibattito storico e storiografico sembra aver fatto un notevole passo indietro, soprattutto nella sua parte più mainstream…
Trovo che questo nuovo antifascismo sia altrettanto pericoloso e ridicolo della sua controparte. È una lotta tra fantasmi, visto che dei fascisti e dei loro avversari si è occupata con imparzialità assoluta anche l’anagrafe. Credo che le attuali polemiche abbiano poco a che fare con la cultura, ma siano ispirate da esigenze di politica elettorale: la sinistra, che ha smesso di fare la sinistra vera da un pezzo, ha bisogno di un nemico per compattarsi.
E certa intellighentsia glielo fabbrica.
Esatto.
Il nuovo antifascismo è ridicolo e pericoloso come la sua controparte: è una lotta tra fantasmi
Ma non c’è il rischio che queste polemiche alla fine avranno una sola vittima, cioè la comunità degli studiosi e degli storici professionisti?
Più che di rischio, parlerei di quasi certezza: questa comunità non gode di buona salute e, tranne lodevoli eccezioni (Gentile, Perfetti e Simoncelli), offre spettacoli penosi, spesso e soprattutto a livello accademico.
L’aspetto peggiore non riguarda il mondo accademico bensì il dibattito pubblicistico, esasperato dai social. In questi casi i veleni fioccano, come dimostra una polemica in cui è stato coinvolto L’IndYgesto, documentata da Critica Liberale (leggi qui).
Ho seguito la polemica ed esprimo la massima solidarietà a uno storico bravo come Marco Vigna, che proprio non meritava l’attacco volgare di Mimmo Franzinelli. Ma di quel che ha scritto Franzinelli contro Vigna l’aspetto peggiore non è la volgarità. Lui, che ha ingiuriato il suo bersaglio «asino» e «ignorante colossale», ha preso una cantonata che dovrebbe suggerirgli maggior prudenza prima di polemizzare.
Cioè?
Franzinelli ha attribuito l’espressione “si ammazza troppo poco” a Mario Roatta, il comandante della Seconda Armata che operava nel teatro jugoslavo. Di Roatta ho studiato a fondo e pubblicato la Circolare 3C e di quest’espressione non c’è traccia. La frase semmai è del generale Mario Robotti, che la scrisse in calce a un fonogramma ricevuto dalla divisione Cacciatori delle Alpi. Ricordo anche che Robotti fu un militare duro, ma non inumano o criminale: fu lui a salvare gli ebrei in Croazia. Ma d’altronde, avendo letto vari libri di Franzinelli, non mi meraviglio di queste e altre stecche, che sono il prodotto di una cultura pop della storia.
E la volgarità?
Posso parlare di me, che non sono termine di paragone per nessuno: sono abituato a citare tutti gli estremi dei documenti che uso e non trascendo mai nelle polemiche. Purtroppo, per molte persone le buone creanze sono come il coraggio per don Abbondio: se uno non le ha, non se le può dare.
Tutto questo per difendere Angelo Del Boca non da attacchi ma da critiche…
Se la difesa è questa, lo scomparso Del Boca non ha ottimi avvocati.
Franzinelli prima di polemizzare dovrebbe documentarsi a dovere e, soprattutto, non dovrebbe insultare
I gas di Del Boca e i segreti di Pulcinella
È venuto il momento di prendere una posizione spassionata su Angelo Del Boca, già comandante partigiano, poi giornalista, infine storico impegnato…
In ossequio all’adagio latino secondo cui de mortuis nisi bene, inizio dagli aspetti positivi: è stato uno scrittore di razza e, a differenza di altri giornalisti impegnati nel campo storico, conosceva gli archivi. Ma, per quel che mi riguarda, i pregi finiscono qui, perché le zone d’ombra, biografiche e intellettuali, del personaggio non sono poche.
Iniziamo da quelle biografiche.
Del Boca racconta che fu costretto ad arruolarsi nella Rsi per scongiurare l’arresto del padre. Al riguardo, mi permetto di osservare che il Codice penale militare della Repubblica Sociale vietava la presa di ostaggi per incentivare la leva. E infatti, ciò non accadde ai politici e ai generali, figurarsi a un semplice albergatore. Ancora: Del Boca racconta di aver disertato dalla Divisione Monterosa, prima di andare al fronte e dopo aver partecipato a vari rastrellamenti durante i quali ebbe modo di assistere ad atrocità. Su questo punto faccio due osservazioni. La prima: la Monterosa era un reparto ad alta politicizzazione. Perciò c’è da dubitare che lui ne sarebbe potuto diventare ufficiale, come fu, se le sue motivazioni erano labili. La seconda: amo pensare che Del Boca abbia saltato il fosso perché disgustato dalle atrocità. Peccato solo che non abbia provato altrettanto disgusto per le atrocità commesse dall’altra parte a guerra finita.
Del Boca ha alcuni punti oscuri, biografici e scientifici. Montanelli in realtà non negò mai l’uso dei gas
Del Boca, come storico, è stato protagonista e oggetto di varie polemiche.
Provo a fornire un breve giudizio di sintesi: ho già detto che lui sapeva usare gli archivi e i documenti, ma li usava come diceva lui, spesso forzandoli. E poi aveva il vizio dell’autocitazione encomiastica. La vicenda dei gas ne è un esempio.
Sui gas si ricorda la vecchia polemica con Montanelli, che ne aveva negato l’uso, almeno nella campagna di Abissinia.
Nel volume I gas di Mussolini – interessante soprattutto per i contributi di storici di vaglia come Giorgio Rochat, Ferdinando Pedriali e Roberto Gentilli – è dedicato molto spazio alle scuse di Montanelli. Tuttavia, questo dibattito di metà anni ’90 dovrebbe essere rievocato con lucidità: Indro Montanelli non negò mai l’uso dei gas, ma, al più, ne minimizzò la scala. Infatti, aveva già dedicato due pagine all’argomento in L’Italia littoria, scritto assieme a Mario Cervi e uscito per Rizzoli nel 1979, e aveva confermato le proprie affermazioni in Storia del Regno d’Italia, una raccolta a fascicoli del ’93 allegata a Il Giornale. Affermare, come fece in entrambi i casi Montanelli, che i gas furono usati ma non in maniera tale da determinare le sorti del conflitto, non vuol dire negare ma sostenere una tesi storicamente corretta. Se ne accorse all’epoca un montanelliano di ferro, che allora era un giornalista di destra: Marco Travaglio, il quale attaccò Del Boca dalle colonne de L’Indipendente.
Mettiamo un po’ d’ordine. Del Boca è considerato un pioniere della storia del colonialismo italiano, di cui avrebbe rivelato retroscena e atrocità inediti, a partire proprio dalla vicenda dei gas…
Le ricerche di Del Boca andavano bene, a livello divulgativo, quando queste vicende erano poco note. Oggi emergono soprattutto gli errori e le faziosità, dovute soprattutto all’uso di fonti etiopi. Ma non è mai esistita una untold history sugli aspetti più controversi del colonialismo italiano. Semmai, una certa destra nazionalista e neofascista ha le sue pesanti responsabilità perché, a furia di negare ostinatamente, contribuì a creare inutili aloni di mistero e sospetti di complici silenzi.
Tutto su quei “maledetti” gas
I gas sarebbero il classico segreto di Pulcinella.
Esattamente. A conquista d’Etiopia terminata, Rodolfo Graziani, all’epoca viceré, fece pubblicare La guerra italo- etiopica. Fronte sud, uno studio piuttosto completo sui combattimenti coloniali. In questa pubblicazione sono riportati anche i documenti sull’uso dei gas. Nel 1949 Vanna Vailati pubblicò il libro biografico Badoglio racconta, in cui il generale ammetteva l’uso di proiettili caricati ad arsina (e non arsine, come scrive Del Boca). Nello stesso anno, uscì sul settimanale Oggi una serie di articoli che riportavano i telegrammi di Mussolini sulla guerra d’Etiopia, inclusi quelli relativi all’uso dei gas. Infine, nel ’53 l’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Aeronautica pubblicò uno studio sull’uso degli aggressivi chimici. Se questa è una storia inedita…
L’uso delle armi chimiche fu documentato in varie pubblicazioni, a partire dal Ventennio. Del Boca, in realtà, non ha rivelato nulla che non si sapesse. I neofascisti ebbero le loro colpe: a furia di negare, hanno contribuito a creare inutili aloni di mistero su queste vicende
Ma quante armi chimiche usarono gli italiani in Etiopia? E quanti morti provocarono?
Per rispondere in maniera corretta, occorre dire che gli aggressivi chimici, soprattutto l’iprite, sono armi ad effetto temporaneo, perché i gas si dissolvono in tempi piuttosto brevi. Quindi non provocano quella grande mortalità. Anzi, sono meno letali delle armi convenzionali. Dunque, l’Italia utilizzò tra il 22 dicembre del ’35 e l’aprile successivo 317 tonnellate di gas: 1.597 bombe del tipo C 500 T caricate a iprite (e non irrogatori, come pure ha sostenuto erroneamente Del Boca) oltre a 1.367 proiettili caricati ad arsina. Il numero di caduti abissini per l’uso degli aggressivi chimici è stimabile tra i 350 e i 500.
Non è una scala tale da determinare l’esito del conflitto.
Infatti. Questo aspetto lo ha chiarito bene Pedriali: la struttura dell’acrocoro etiopico, il suo clima secco e le alte temperature facilitavano la dispersione dei gas, che perciò risultarono meno efficaci del previsto. Inoltre, le bombe C 500 T avevano una spoletta a tempo che le faceva esplodere a 250 metri d’altezza per irrorare il contenuto. Molte di queste caddero inesplose. La loro efficacia fu spesso indiretta: l’iprite ha un odore caratteristico di senape (non a caso è definito in inglese mustard gas), che gli abissini impararono a riconoscere e a evitare. Quindi le truppe del negus erano indotte a scegliere percorsi particolari per evitare il gas, dove gli italiani le aspettavano al varco. I massacri, anche notevoli, avvennero grazie a queste trappole, ma furono causati da armi convenzionali, non dai gas.
Però la quantità di proiettili utilizzati non sembra proprio irrilevante.
È una questione di scala, ripeto. Chiarisco con un esempio: la notte del 7 giugno 1918 l’esercito tedesco lanciò tra Compiegne e Montdidier 15mila tonnellate di proiettili chimici. Anche in questo caso è evidente la sproporzione tra mezzi ed effetti: i morti furono solo 32 e gli avversari temporaneamente fuori combattimento 4mila
Un colonialismo “normale”
Le atrocità denunciate da Del Boca non si fermano ai gas, che furono l’aspetto più vistoso. Lo scrittore piemontese, al riguardo, puntò il dito su vari episodi.
Ne cito io alcuni. Iniziamo col massacro dei monaci cristiani copti di Debra Libanos. Le operazioni militari furono condotte senz’altro da militari italiani, ma eseguite da un battaglione di harrarini musulmani che odiavano i copti e agirono per vendicare ciò che avevano subito ad Harrar a opera del negus. Ancora: i galla si schierarono con gli italiani e incrudelirono non poco per vendicare le atrocità subite dall’esercito imperiale, che devastò villaggi, sterminandone vecchi e bambini e violentandone tutte le donne. Per quel che riguarda la rivolta del Goggiam, occorre chiarire un altro punto: quella regione era storicamente infestata dal brigantaggio e aveva un alto tasso di ribellismo. Una specie di Basilicata dell’Etiopia. Infatti, le rivolte non ebbero come bersaglio solo gli italiani ma, prima di loro, il negus e, dopo di loro, di nuovo il negus e i britannici.
Insomma, erano conflitti tribali e interetnici.
Non dimentichiamoci che erano tutte popolazioni guerriere, con un alto tasso di bellicosità e inimicizie endemiche radicate da secoli. Penso, per fare un altro esempio, ai contrasti tra eritrei e libici.
I massacri furono più il prodotto di rivalità e conflitti tra le tribù colonizzate che iniziative degli italiani, che si limitarono a praticare il divide et impera
E gli italiani, in tutto questo?
Usarono, per citare Ennio Flaiano, i principi del buon colonialista: mettere l’uno contro l’altro i popoli conquistati. In questo noi italiani non fummo meglio degli altri, ma neppure peggiori.
Sempre a proposito di pratiche coloniali, una parte corposa della produzione di Del Boca riguarda la Libia.
Il problema non è il comportamento dell’Italia in sé, ma il comportamento che ebbe l’Italia nel contesto generale del colonialismo. Ora, la parte fascista del colonialismo italiano è solo la più vistosa, ma fu preceduta da circa quarant’anni di espansione nel Continente Nero. Quanto basta a creare una tradizione e a generare prassi. Veniamo alla Libia: il decreto di istituzione dei campi di concentramento in Cirenaica risale al 1921, come l’autorizzazione all’uso dei gas. I gas furono utilizzati dal governo Facta e autorizzati dall’allora ministro delle Colonie, l’antifascista Giovanni Amendola, lo stesso che istituì i campi. È un crimine fascista?
Crimine o meno, fu sempre un comportamento pesante tenuto dagli italiani.
In un contesto storico in cui i gas li usavano più o meno tutti, in ambito coloniale e, a volte, interno. Faccio due esempi. Il primo è britannico e risale al 1931. Si verificò in Iraq, a Sulaiman. Winston Churchill, allora sottosegretario, legittimò l’uso degli aggressivi chimici dicendo che erano contro popolazioni selvagge. Il secondo esempio è sovietico e al riguardo emergono i casi di Tuchacevskij e Stalin. Il primo usò i gas in Ucraina e Bielorussia, il secondo a Tambov. In tutti i casi, per reprimere rivolte di contadini e non atti di guerriglia di gruppi armati e organizzati.
Molta letteratura è viziata da un pregiudizio anticoloniale. Lo storico, invece, dovrebbe considerare il colonialismo come un dato su cui lavorare per raccontarne le vicende in maniera spassionata. Tutto il resto è propaganda
Morale della favola?
Credo che molta letteratura sia viziata da un pregiudizio anticoloniale. Cioè dal rigetto totale del colonialismo. A livello morale e ideologico può essere una posizione legittima, ma uno storico deve far altro: considerare i fenomeni come dati su cui lavorare per raccontarne le dinamiche, i protagonisti e gli eventi salienti. Tutto il resto è propaganda.
A proposito di gas, sta per uscire un suo nuovo libro.
Il titolo di lavorazione è l’Ala pesante (ispirato a un’espressione di Paolo Caccia Dominioni) e, se tutto andrà bene, dovrebbe uscire prima dell’autunno per l’editore Eclettica di Massa. In questo volume ho sottoposto a forte vaglio critico le tesi di Del Boca ma tengo a precisare che non l’ho scritto per polemizzare contro chi non c’è più e quindi non può difendersi: il manoscritto è già pronto da qualche mese e coltivo da anni le idee e le ricerche culminate nella sua stesura.
Da quanti anni?
Quasi venticinque. L’idea me la diede, durante una cena, il generale de Castiglioni, allora direttore dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito. All’epoca era ancora fresca la polemica anticolonialista, culminata in un’interrogazione parlamentare di Pds e Rete e, anche per questo, il generale mi chiese cosa pensassi di Del Boca. Io gli risposi che utilizzava i documenti in maniera arbitraria. Lui mi diede ragione e mi esortò a scrivere un libro. Eccolo.
(a cura di Saverio Paletta)
244,205 total views, 12 views today
Comments