Islam e matrimoni imposti, parla Hamza Piccardo
Il decano dell’Islam italiano è tra i promotori della fatwa contro i matrimoni combinati: «Abbiamo voluto dare un forte segnale politico». L’Islam occidentale? «C’è già e ha un compito difficile: superare le subculture etnotribali». Un viaggio all’interno della cultura e del diritto mussulmani
Il caso della povera Saman Abbas si trascina tra tanti colpi di scena (e di coda) dopo aver appassionato e diviso non solo i cittadini comuni ma anche il mondo variegato dell’Islam italiano.
Parliamo di una realtà in crescita numerica, grazie all’immigrazione e alle conversioni di italiani, e a dir poco complessa.
Una prova di questa complessità è stata la divisione con cui le comunità islamiche hanno accolto una notizia importante: la fatwa, sottoscritta da cento religiosi mussulmani, che respinge i matrimoni forzati.
Questa fatwa, lanciata dall’Ucoii (Unione delle comunità islamiche italiane), si è attirata le critiche sia di parte della politica italiana – esemplare, al riguardo, la presa di posizione del gruppo di +Europa di Reggio Emilia (leggi qui) – sia dello stesso mondo islamico, come testimonia il giudizio duro di Maryan Ismail, storica esponente della comunità somala italiana (leggi qui).
Inoltre, occorre aggiungere per dovere di cronaca, non tutto il mondo sunnita ha ritenuto opportuna la fatwa e su essa ha espresso critiche di opportunità la parte sciita.
Il mondo è bello perché è vario, si potrebbe commentare con un adagio popolare.
E la pensa così anche Hamza Piccardo, imperiese, pioniere e decano dell’Islam italiano, già segretario dell’Ucoii e traduttore più che accreditato del Corano nella nostra lingua (è sua l’edizione Newton Compton): «Il disordine è la nostra ricchezza culturale ma anche la nostra debolezza», spiega Piccardo, che è tra i promotori della fatwa.
Partiamo dalla notizia della fatwa, che è finta un po’ in secondo piano perché nella tragedia di Saman è prevalso l’aspetto più legato alla cronaca nera.
Infatti, quel che è capitato a Saman è essenzialmente un dramma di cronaca nera, come ne avvengono troppi, purtroppo, anche nel mondo cristiano, anche nella parte più laica della società italiana, in cui i delitti relazionali o legati a fatti culturali si verificano in quantità costanti (penso ai femminicidi) o, addirittura, sembrano in aumento. Il caso di Saman ha acquisito una valenza politica perché è maturato nel contesto particolare di una famiglia di immigrati, di religione mussulmana. Quindi ha esasperato polemiche mai sopite. La fatwa, in questa situazione, è senz’altro un importante segnale politico con cui abbiamo voluto ribadire a tutta l’opinione pubblica, non solo italiana, che il Corano e la Sunna, i due pilastri del diritto islamico, tutelano la libera volontà delle persone e quindi, non legittimano i matrimoni combinati o imposti a vario titolo. Dirò di più: il primo arkan [fondamento, ndr] del matrimonio islamico è la libertà del consenso degli sposi.
Però ai non addetti ai lavori questa fatwa firmata da cento mufti e imam, potrebbe sembrare un po’ surreale: è come se cento giudici emanassero cento sentenze per omicidio allo scopo di ribadire che l’omicidio è un delitto…
Nel nostro caso, non è proprio così. È una questione di contesti: il diritto civile dell’Europa continentale (ma pure quello dei Paesi a maggioranza islamica) è diritto positivo, cioè creato dai legislatori. Lo stesso discorso riguarda la Chiesa cattolica, che ha anch’essa nel Corpus Iuris Canonici una base di diritto positivo per quel che riguarda le questioni della fede. Il diritto di noi mussulmani è, invece, consuetudinario e si basa sull’interpretazione dei testi sacri. Le fatawi [plurale di fatwa, ndr] sono fonti indispensabili.
Va bene, ma cosa significa fatwa precisamente?
Le lingue, incluso l’arabo, hanno significati peculiari, non facilmente traducibili in altre lingue. Fatwa, alla lettera, significa parere. Tuttavia, è un parere vincolante per i credenti.
Non proprio come la consulenza dell’avvocato o del commercialista, a cui il cliente è libero o meno di attenersi.
È così. Visto che parliamo di uno strumento giuridico, si potrebbe usare anche il termine massima, sebbene in maniera un po’ impropria. Questo modo di formazione del diritto islamico non è una stranezza né un sintomo di arretratezza. Il paragone più corretto lo si può fare con il diritto romano classico o con i sistemi di common law, anch’essi consuetudinari: non mi pare che l’Impero Romano o la civiltà anglosassone siano sistemi giuridici e culturali retrivi…
Va bene. Però ricordiamo due cose: l’Ucoii è sunnita e non tutto il mondo sunnita ha preso bene la fatwa, mentre il mondo sciita si è chiamato fuori.
Trovo comprensibili alcuni motivi di questi dissensi. In particolare, c’è chi ha considerato questa fatwa una specie di scusa non richiesta, quindi un segno di debolezza delle comunità islamiche.
Già: se il Corano e la Sunna non obbligano nessuno a sposare qualcuno contro la propria volontà, che bisogno c’era di ribadirlo?
Mi ripeto: per dare un segnale politico, sia alla maggioranza degli italiani sia a parte dei miei correligionari. Visto che ci sono, mi permetto di ricorrere a un altro concetto giuridico: quella che vogliamo fornire è una specie di interpretazione autentica.
Cioè?
Abbiamo voluto dire nella maniera più chiara possibile che per l’Islam, così come per il Cristianesimo, i matrimoni combinati non esistono. Di fronte a una presa di posizione così netta c’è poco da fare.
Va bene, ma allora per chi esiste il matrimonio combinato, visto che quello di Saman non è stato l’unico caso di violenza su una ragazza che rifiutava un matrimonio imposto?
Esiste per le culture etniche e tribali che perdurano in varie zone in cui l’Islam è prevalente, tra cui il Pakistan. Al riguardo, non mi sembra superfluo ricordare che la famiglia Abbas, a quel che risulta, non è praticante o, almeno non lo è molto.
Torniamo sulle linee più generali: sembra, tuttavia, che l’Islam queste culture le subisca.
Dipende dai contesti. In molte realtà, l’Islam è in tensione dialettica con queste culture e le loro pratiche (penso all’infibulazione). Al riguardo, voglio chiarire un altro concetto: il Corano, come nel Cristianesimo i Vangeli e gli Atti degli Apostoli, è intervenuto in un momento particolare della storia dell’uomo per dare un messaggio di libertà. Mi permetto di dire di più: il Corano contiene un messaggio di liberazione dell’essere umano importantissimo. Non c’è praticamente sura che non tenda a questo scopo.
Però la parola libertà praticamente non esiste nella rivelazione coranica.
Se il concetto è immanente a tutto il testo, che bisogno c’è di usarlo in maniera esplicita?
Fermiamoci sul concetto di tensione dialettica con le culture etnotribali…
La predicazione di Gesù, che noi veneriamo come profeta e Verbo incarnato, si diffuse a partire dalle aree orientali dell’Impero, una grande civiltà segnata tuttavia da gravi ingiustizie e il suo messaggio di uguaglianza, che significava uguale libertà per tutti, ebbe un impatto rivoluzionario. La predicazione di Maometto, invece, si diffuse nel mondo arabo, che era una realtà in larga parte di tribù nomadi. Il suo impatto fu ancora più forte perché in nome delle libertà ridusse la portata delle culture dei clan e trasformò quello che era un sistema tribale in una civiltà che ha avuto i suoi momenti di innegabile grandezza. Questa dialettica con le subculture di tipo tribale continua ancor oggi. Noi crediamo di aver fornito un contributo forte nella direzione della libertà, che è un concetto fondante della nostra cultura religiosa.
Però questa tensione non sempre dà esiti positivi. Per dirla con una battuta, si potrebbe dire che è a corrente alternata.
Rispondo a battuta con battuta: dipende dai conduttori e dai circuiti. L’Islam ha una forma libera. Non dispone di strutture accentrate e verticistiche come la Chiesa, che tra l’altro ha avuto il suo bel da fare. E lo ha tuttora. Mi permetto di ricordare che alcune subculture, come il matrimonio combinato e il delitto d’onore (che ha avuto pure un riconoscimento nel Codice penale) sono durate fino a circa cinquant’anni fa al Sud e in altre aree del nostro Paese. O vogliamo parlare dell’impegno pieno della Chiesa contro le culture mafiose, che è piuttosto recente e tuttora non facile? Ci sono subculture difficili da affrontare. E se queste difficoltà le ha la Chiesa, a cui non mancano strumenti e strutture, perché non dovrebbe averle anche l’Islam? Se la Chiesa non avesse strutture verticistiche, sarebbe difficile trovare cento sacerdoti che la pensino alla stessa maniera su cose altrettanto delicate di quelle che abbiamo affrontato noi.
Queste riflessioni aprono un’altra questione: l’Islam occidentale. È una realtà realizzabile?
A dirla tutta, esiste già, visto che in Italia, tra cittadini italiani convertiti e immigrati, noi islamici non siamo proprio una nicchia trascurabile. Negli altri Paesi europei il discorso è ancora più avanti, almeno a livello di numeri. Occorre, a mio avviso, un maggior coordinamento tra le nostre guide, le rispettive comunità e le altre comunità, religiose e laiche. E occorre un impegno maggiore delle istituzioni culturali italiane. È doveroso ricordare che molti figli di migranti diventeranno cittadini italiani a pieno titolo. Perciò la sfida dell’Islam occidentale sarà superare le subculture tribali e lanciare una cultura del dialogo tra religioni. Le grandi civiltà si sono fondate sugli scambi e sulla dialettica e non si vede perché si debba fare eccezione proprio adesso.
Ma un esempio di Islam occidentale c’è?
Ne fornisco uno di facile comprensione: il poliziotto che perse la vita durante l’attentato a Charlie Hebdo era mussulmano. È morto eroicamente per compiere il suo dovere di cittadino, a prescindere che condividesse o meno i contenuti della famosa rivista satirica. L’Islam produce buoni cittadini rispettosi delle leggi come tutte le altre religioni. Viceversa, i cattivi esempi sono dappertutto.
Hamza Piccardo si è convertito all’Islam dopo un passato di vicinanza all’estrema sinistra. Da cosa deriva questa fascinazione, diventata folgorazione e, quindi, punto di partenza di un percorso spirituale e culturale non facile e profondo?
La mia conversione avvenne nei primi anni ’70, in seguito a un viaggio in Africa Occidentale. Fui colpito dalla semplicità con cui le persone si dedicavano alla preghiera: nessuna struttura, nessuna immagine. Si inginocchiavano sulla sabbia e si rivolgevano direttamente a Dio. Il loro è un rapporto essenziale, puro, oserei dire, col Sacro. Ma questa purezza non ha impedito all’Islam di acquisire una grande ricchezza spirituale e culturale. Io ho iniziato questo percorso perché ho capito che l’Islam è il linguaggio con cui Dio mi si è rivolto per farmi comprendere la Sua presenza. Per questo rispetto le scelte degli altri, quando sono sincere.
(a cura di Saverio Paletta)
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