Inginocchiate e stronzate, le nuove forme della cancel culture
Ha destato polemiche la mancata adesione dei calciatori italiani e austriaci alla campagna antirazzista promossa da Black Lives Matter. In realtà, il razzismo è l’aspetto minore del problema. Si può essere liberi di non allinearsi alla propaganda di certe lobby culturali senza subire accuse di ogni sorta?
Una citazione doppia per iniziare: «A me me pare ’na strunzata». Lo diceva Edoardo Romano dei mitici Trettrè, lo ha ribadito Giancristiano Desiderio nel suo colto e divertente pamphlet, “Teoria generale delle stronzate”, uscito da poco per Castelvecchi.
«A me me pare ’na strunzata», ripetiamo anche noi, con un riferimento preciso: il mancato inginocchiamento dei calciatori italiani e austriaci in omaggio a Black Lives Matter.
Le motivazioni, a dirla tutta, sono un po’ risibili: i responsabili delle due Nazionali hanno parlato – verosimilmente in accordo con gli stati maggiori della Fifa – di libertà di coscienza dei singoli giocatori ecc. Altre stronzate, insomma.
Ma non è con le stronzate che si può spiegare atteggiamenti e scelte legittimi, quali il non volersi genuflettere ai diktat di alcuni orientamenti minoritari e prepotenti. Certo, gli stadi e le loro platee non sono ambienti idonei a distinguo e ragionamenti. Tuttavia, distinguo e ragionamenti vanno fatti, perché altrimenti non si riesce a capire ciò che è stronzata e ciò che non lo è e, anzi, è roba serissima.
È roba serissima, purtroppo, il clima di razzismo strisciante che ammorba le nostre società. In alcuni casi è xenofobia andata fuori controllo, sintomo di processi di integrazione promossi male e gestiti peggio, con un esito micidiale: la distorsione di una reazione difensiva, in parte legittima (la paura dell’altro e di ciò che non si conosce), in impulso aggressivo.
In altri è pregiudizio puro e semplice, radicato quanto è radicata l’ignoranza che lo produce.
Sempre a proposito di razzismo, la storia recente ha dimostrato che da questa malattia non è immune nessuno, neppure quelli che una certa narrazione (di scarso valore e di enorme diffusione) dipinge come vittime: sono razzisti gli indiani verso bengalesi e neri; sono razzisti gli arabi verso i berberi (con modi e toni che richiamano spesso l’italico pregiudizio antimeridionale) e verso i neri; sono razzisti i neri del Centrafrica (avete presente quel che accadde in Ruanda e Burundi tra tutsi e hutu?).
Ancor peggio per le culture estremo-orientali, in cui persino i movimenti marxisti hanno preso curvature razziali e xenofobe (valga per tutti l’esempio degli khmer rossi): tra giapponesi, cinesi, indocinesi si fa a gara tra chi ha il muso più “giallo”.
Ma c’è di peggio: questa stessa curvatura “Volkisch” finiscono per prenderla anche i movimenti antirazzisti, che sfociano spesso in un razzismo rovesciato, ugualmente pernicioso, contro gli oppressori, reali e presunti.
Già: il vero avversario del razzismo non è l’antirazzismo, ma l’integrazione. Il primo nega le differenze, spesso con esiti disastrosi, la seconda le considera un dato, a volte ineliminabile, e mira, più realisticamente, a farle coesistere e a trasformarle in arricchimento reciproco.
Torniamo alle stronzate. Tale è la paccottiglia ideologica di cui si nutre il cosiddetto Black Live Matters, partito senz’altro da istanze legittime – la lotta ai pregiudizi e alle discriminazioni – e degenerato in men che non si dica in violenti moti iconoclasti contro l’Occidente e i suoi simboli.
I risvolti di questa distorsione meriterebbero la satira più che l’analisi: l’odio verso le lingue nobili (latino e greco antico); la furia contro grandi pensatori, Voltaire in testa, “rei” di essersi lanciati in affermazioni e ragionamenti “razzisti”, tra l’altro tipici del loro tempo; la “caccia” a statue e icone pubbliche, diventate vittime del teppismo 2.0 nobilitato da questa neoideologia grottesca.
Al riguardo, è il caso di non addentrarsi nelle dietrologie, ma c’è un aspetto troppo vistoso in questi “pacchetti” ideologici (e dal “pacchetto” al “pacco” il passo è breve) per essere passato sotto silenzio: certi slogan e certe argomentazioni antioccidentali ricordano sin troppo alcune forme di propaganda che accompagnarono i movimenti anticoloniali. Questa propaganda, va detto, spesso non era “autoctona” e spontanea, ma era stata elaborata dalle centraline ideologiche dell’Urss che mirava a scalzare le vecchie potenze coloniali per crearsi una propria sfera d’influenza.
Questo accenno serve a formulare una banale domanda: a chi giova, oggi, questa collezione di stronzate?
Può servire a certi salotti radical chic, che si guardano bene dall’affrontare i problemi reali ma cercano consensi pontificando dove e come possono in nome della cancel culture, che ha preso il posto del vecchio marxismo.
Intanto, le stronzate continuano a girare, senza contribuire a risolvere alcun problema.
Non quelli annosi e micidiali dell’Africa, dove si assiste alla penetrazione economica della Cina, di sicuro non migliore delle egemonie occidentali.
Non quelli interni alle società occidentali, che proseguono con la stessa virulenza, perché una cosa sono le chiacchiere da salotto, un’altra la vita delle persone reali (migranti e non) che i salotti li possono vedere solo da lontano e non li prendono sul serio.
E il calcio, in tutto questo? A furia di dar la caccia ai fascisti, i novelli – e facili – Wiesenthal della cancel culture hanno deciso che solo alcuni violenti vanno puniti: quelli di estrema destra. E lo hanno fatto ignorando, in maniera più o meno volontaria, che gli ambienti ultrà si basano su tutto pur di alimentare le proprie tendenze violente: localismi, campanilismi, musica e ideologie. Già: forse certi gruppi di ultrà sinistra si sono rivelati meno violenti e pericolosi dei “fasci”?
Nell’“inginocchiamento” eretto a obbligo morale c’è una stronzata in più, l’ipocrisia.
Tale è l’atteggiamento degli atleti che l’hanno inaugurato negli Usa, il primo Paese occidentale che ha dato alle persone di colore la possibilità di diventare star milionarie, grazie allo sport, alla musica e al cinema. È l’ipocrisia dell’arricchito che tenta di compensare i propri sensi di colpa ergendosi a icona dei diritti civili.
Questo discorso vale anche per l’Italia. Anche da noi ci sono tanti casi di discriminazione (ma ce ne sono non pochi di discriminazione alla rovescia), tuttavia i club pullulano di bravissimi calciatori di colore giustamente idolatrati dai propri tifosi.
E, a proposito di questi ultimi, siamo sicuri che le nazionali siano il veicolo idoneo per certi messaggi antirazzisti?
La storia, anche non troppo recente, ci insegna che, semmai, sono le tifoserie locali il vero problema. Ma incidere nei tanti gruppi ultrà, soprattutto quelli animati da idee di estrema destra, è impossibile, mentre le nazionali, che godono di un tifo meno organizzato (e senz’altro più “borghese”), restano un bersaglio facile.
Per fortuna, italiani e austriaci alla fine non si sono inginocchiati. Hanno avuto il merito di non aggiungere stronzata a stronzata: tale sarebbe stata l’ipocrisia di un gruppo di atleti benestanti che chiedono scusa per colpe non loro.
Saverio Paletta
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