Caso Lombroso-Ecco De Bonis, il nuovo testimonial politico dei neoborb
Il senatore lucano ha formulato un’interrogazione parlamentare contro il Museo dedicato al papà dell’Antropologia criminale. L’accusa: è un’istituzione che celebra il razzismo antimeridionale. La minaccia: denuncerò lo Stato italiano. Neppure Scilipoti, dieci anni fa, era arrivato a tanto…
La storia si ripete due volte, la prima come tragedia, la seconda come farsa, diceva Karl Marx, uno che di storicismo s’intendeva.
Ma il curioso risveglio della polemica contro il Museo Lombroso di Torino fa eccezione: manca la tragedia, perché nessuno dei protagonisti di questa vicenda ha mai avuto uno spessore tragico.
Non l’aveva Domenico Scilipoti, che guidò la prima delegazione di terronisti in visita al Museo torinese, circa dieci anni fa, quando il revisionismo antirisorgimentale andava a gonfie vele, non ce l’ha Saverio De Bonis, protagonista di questa nuova crociata, lanciata da Gennaro De Crescenzo, il presidente del Movimento neoborbonico.
Ma anche nelle commedie i personaggi hanno carature diverse.
Scilipoti, autore di un’interrogazione parlamentare quando ancora il Comitato “no Lombroso” e il Comune di Motta Santa Lucia non avevano iniziato il processo contro il Museo, marcò a fuoco la fase finale del berlusconismo col suo passaggio da Idv al Misto e poi nel Pdl (grazie a cui fu eletto senatore in Calabria) quindi in Forza Italia.
Il tutto a coronamento di una carriera politica a dir poco tortuosa iniziata nelle file del Psdi in pieno tracollo della Prima Repubblica, che tuttavia lui considerò poco più di un’eclissi, visto che continuò nella Seconda le pratiche apprese nei vecchi partiti.
Alle spalle, la professione medica (vero e proprio must dei politici meridionali come lui) e una certa gavetta nelle amministrazioni locali.
Insomma, Scilipoti aveva un perché e la sua adesione alla crociata antilombrosiana si può spiegare anche come un gesto per giustificare a parte della classe politica calabrese il suo ruolo altrimenti artificiale di rappresentante del territorio.
Saverio De Bonis non ofifre neppure questo motivi d’interesse. A leggere la voce di Wikipedia dedicata a lui (ma neppure il sito del Senato e Openpolis dicono di più) sembra un fungo, spuntato nell’humus della postpolitica.
Di lui non figurano precedenti politici o titoli di studio: si sa solo che è stato eletto al Senato nella lista lucana del Movimento 5 Stelle ed è specializzato in questioni e problemi dell’agricoltura, che è il suo mestiere (è imprenditore agricolo) e gli ha procurato una piccola grana politica: una condanna della Corte dei Conti per le irregolarità nelle dichiarazioni relative a un bando per finanziamenti agricoli.
Roba piccola, intendiamoci: neppure tremila euro. Alla controversia contabile si aggiunge una nota dell’Ordine degli agronomi, in cui si precisa che, a dispetto di una convinzione diversa piuttosto diffusa, De Bonis non farebbe parte di questa categoria professionale (leggi qui).
Poche cose, specie se paragonate al curriculum giudiziario di Scilipoti, che va dalla famosa (e archiviata, per sua fortuna) accusa di corruzione per essersi fatto comprare da Berlusconi, alla condanna per un vecchio appalto, all’inchiesta per presunti legami con un clan ’ndranghetistico, coltivati nei lontani – e ruggenti – ’90.
Fuori dai grillini, grazie a cui ha potuto raggiungere 123mila preferenze, De Bonis si è dedicato a una massiccia campagna terronista, di cui l’interrogazione contro il Museo Lombroso sembra essere una tappa importante.
Quest’ultima, presentata il 12 maggio scorso al ministro Dario Franceschini, è un centone di bufale e inesattezze, in cui l’ignoranza degli argomenti si mescola alla grande alla manipolazione.
L’interrogazione attacca col classico dito puntato contro la «perenne e costante campagna diffamatoria e razzista ai danni dei meridionali» (tra l’altro fatta da chi? Per caso dagli allestitori del Museo?) e culmina con una dichiarazione a dir poco fantasiosa e confusa, che si riporta per intero.
Eccola:
«La convinzione di Lombroso – si legge nell’interrogazione – si basava in particolare sulla tesi “dell’uomo delinquente nato o atavico”, il delinquente per natura, individuo che recherebbe nella struttura fisica i caratteri degenerativi che lo differenziano dall’uomo normale; il medico Lombroso non esitò a scorticare cadaveri, mozzare e sezionare teste, effettuare i più incredibili e crudeli interventi su uomini ritenuti criminali per le misure di parti del cranio e del corpo e tutto il materiale su cui lavorare gli veniva fornito da carabinieri, bersaglieri, guardia nazionale, eccetera, durante le mattanze al Sud. Ma Lombroso non disdegnava neanche procurarsi da sé l’occorrente per dare credito alle sue incredibili teorie fondate su certe forme di razzismo scientifico e per questo si recava personalmente nelle carceri dove erano detenuti ex soldati borbonici, briganti e veri delinquenti; la sua teoria infatti aveva individuato il delinquente “perfetto” nel meridionale».
Quando ci si imbarca in simili crociate (e non si vuol fare la figura di Brancaleone da Norcia) ci si dovrebbe documentare a dovere.
Lo avesse fatto, De Bonis avrebbe saputo che Lombroso non eseguì mai autopsie né mutilò direttamente vivi e morti perché era un medico igienista e non un coroner. Ma, al netto di questa considerazione, dove sono le prove storiche su queste affermazioni quantomeno azzardate?
Ancora: se De Bonis avesse chiesto consiglio a veri addetti ai lavori (e tra antropologi di tutti gli orientamenti, giuristi, storici e criminologi c’è solo l’imbarazzo della scelta) avrebbe evitato le sciocchezze sesquipedali sul presunto antimeridionalismo di Lombroso. Magari, al contrario, si sarebbe reso conto che il teorico dell’innatismo criminale dei meridionali non fu il medico veronese (e torinese d’adozione) ma il siciliano Alfredo Niceforo, che si ispirò a Lombroso ma basò le sue tesi – queste sì – antimeridionali sull’esame dei costumi sardi. E magari avrebbe scoperto che nella produzione lombrosiana c’è un bel volumetto, In Calabria, in cui il papà dell’Antropologia criminale esaminava le condizioni dei contadini calabresi con osservazioni degne del miglior Salvemini.
Comunque sia, proprio sulla base di queste perle il senatore ex grillino vorrebbe una «rivisitazione del Museo per rendere giustizia a quanti ritengono che diffonda idee razziste nei confronti del Mezzogiorno».
Sempre a proposito di razzismo, un protagonista di questa lunga (e divertente) polemica, giunta al secondo atto anche grazie a De Bonis la pensa altrimenti. È Pietro Esposito, discendente di Giuseppe Villella, il contadino di Motta Santa Lucia nelle cui spoglie Lombroso credette di aver trovato la prova dell’innatismo criminale.
Esposito, mentre l’amministrazione di Motta e il Comitato “no Lombroso” preparavano il ricorso in Cassazione rilasciò una dichiarazione ben precisa:
«Non mi pare che Lombroso abbia mai affermato, dopo aver esaminato il cranio del mio avo, che noi calabresi fossimo delinquenti nati. Se ho ben capito, lui credette di aver trovato nei resti mortali di Villella la prova che certe tendenze criminali si riflettessero nell’aspetto fisico dei delinquenti. Ora, se le cose stanno così, è stato accidentale che Villella fosse calabrese: poteva essere anche scandinavo, belgradese o della Pennsylvania. Era una questione di cranio e non di razza o di anagrafe» (leggi qui l’intervista completa).
Ma queste precisazioni sono dettagli per chi, come De Bonis, è deciso a cavalcare certe tigri di cartapesta. Così come risulta una quisquilia la sentenza della Cassazione che, nell’estate 2019, ha confermato il valore di bene culturale del cranio del povero Villella e, quindi, il ruolo scientifico del Museo Lombroso.
Già: secondo una certa mentalità dura a morire, soprattutto in certa politica meridionale, non c’è cosa che non si possa aggirare. C’è una sentenza, tutta da rileggere, che smonta ogni fesseria? Basta non tenerne conto. Fior di studiosi si sono dedicati ad analisi approfondite sul pensiero di Lombroso e, già che c’erano, sul positivismo? Il problema quasi non si pone, perché la classe politica si dimostra da anni allergica alle letture e De Bonis, quasi di sicuro, non fa eccezione (altrimenti non avrebbe promosso questa paccottiglia).
Infatti, il senatore è rimasto perfettamente tetragono alle critiche e agli sfottò, sulla base di un ragionamento autoimmune tipico degli ambienti neoborb: mi attaccano perché servi del Norde… E ha rilanciato, con l’annuncio di una battaglia legale contro lo Stato patrigno che consente certe brutture a danno del Mezzogiorno:
«Non escludo di chiedere che lo Stato finisca sotto processo per inerzia rispetto a una vicenda vergognosa. L’esistenza di un museo dedicato a Lombroso, un personaggio paragonabile a Mengele, perché era un razzista,non certo un grande scienziato visto che le sue tesi sono state confutate. E trovo assurdo che Torino continui a celebrarlo con il museo a suo nome».
L’ipotesi, piuttosto bislacca, sarebbe la denuncia per violazione della direttiva Ue 43 del 2000, che obbliga gli Stati membri alla «parità di trattamento fra le persone, indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica».
È davvero il caso di chiedersi cosa c’entri la parità di trattamento e la non discriminazione con un Museo.
Ed è doveroso fermarsi qui, per non passare dalla critica alla satira: l’unico registro che meritano certe tesi e chi le porta avanti.
Per concludere, una raccomandazione a De Bonis: continui a occuparsi di agricoltura, come politico e come professionista (a proposito: si è poi iscritto all’albo?), curi le sue aziende ma lasci stare storia e scienza. A quanto si è visto, non sono cose sue.
Leggi anche:
Caso Lombroso-I neoborb tornano alla carica
Caso Lombroso-La nuova crociata contro il Museo
Caso Lombroso-Giuseppe Gangemi, lo spin doctor
Caso Lombroso-Franceschini gela i neoborb
64,364 total views, 10 views today
Comments