Caso Lombroso-I neoborb tornano alla carica
Gennaro De Crescenzo ha rilanciato la polemica contro il Museo Lombroso di Torino, accusato di essere un’istituzione che sostiene il razzismo antimeridionale sotto le mentite spoglie della cultura. Come d’incanto, si risveglia il Comitato “no Lombroso” e spunta un testimonial politico…
Può stare simpatico o meno (e a chi scrive sta simpatico), ma non si può negare che il Prof. Gennaro De Crescenzo, presidente del Movimento neoborbonico, sia poco testardo e poco abile nella comunicazione.
Infatti, di recente gli è riuscito un capolavoro di disinformazione di massa: la riesumazione della polemica contro il Museo Lombroso di Torino, già cavallo di battaglia del revisionismo antirisorgimentale dello scorso decennio.
Gli è bastato poco: il solito lancio sulla propria pagina Facebook, in coincidenza con il Giro d’Italia, il conseguente rumore sui social, ripreso da alcune testate giornalistiche, e il solito politico pronto a mettere il cappello su tanto rumore.
Con questi ingredienti poveri e semplici, da fast food dell’informazione di periferia, don Gennarino si è dimostrato capace non solo di volare sopra i verdetti dell’autorità giudiziaria, ma addirittura di sbranare il calendario, riportandone i fogli al lontano 2009.
Di più: Gennarino Settebellezze è riuscito persino a soffiare la battaglia antilombrosiana al suo originario ideatore, l’Ing. Domenico Iannantuoni, ispiratore e leader del cosiddetto Comitato tecnico-scientifico “no Lombroso” e protagonista, in tale ruolo, di una battaglia decennale, prima politica e poi giudiziaria, contro il Museo torinese, tritata dalla Cassazione e quindi smaltita dal disinteresse.
Si è anticipato troppo, quindi è meglio procedere con ordine.
Tutto, come già detto, è cominciato dalla telecronaca della tappa torinese del Giro d’Italia, durante la quale il cronista ha menzionato, tra le attrattive dell’ex Capitale, il Museo Lombroso, senza troppe altre aggiunte, tranne quelle due-tre cose che si possono trovare nella brochure del Museo o nelle prime righe della voce di Wikipedia: cioè che Cesare Lombroso fu il padre dell’Antropologia criminale e che sviluppò la teoria del delinquente nato. Nient’altro. Soprattutto, nessun riferimento specifico al Sud.
Ma per ’o Professore questi son dettagli: gli è bastato postare i trenta secondi utili della trasmissione e lanciarsi nell’attacco alla sciabola (solo digitale: a occhio non avrebbe le phisique du role per impugnare quella vera) contro le istituzioni accademiche torinesi. La tiritera è la solita: Lombroso, a detta del Settebellezze, avrebbe tentato di dare basi scientifiche al razzismo antimeridionale perciò il Museo a lui dedicato sarebbe un’operazione razzista.
Una solfa vecchia. Iniziò nel 2009, con un articolo di Marisa Ingrosso sulla Gazzetta del Mezzogiorno intitolato I briganti meridionali nella «fossa comune» del museo Lombroso (leggi qui).
Sin dal sommario, l’articolo di Ingrosso è un esempio da manuale di disinformazione: riporta correttamente le dichiarazioni di Silvano Montaldo, secondo cui all’epoca era catalogato solo l’uno per cento dei reperti umani (soprattutto crani) e quindi era impossibile ricostruire la loro provenienza.
Tuttavia, quest’articolo lancia – grazie a un montaggio suggestivo di rara efficacia – un messaggio inequivocabile e gradito agli ambienti neoborb: i resti umani su cui Lombroso elaborò la sua teoria erano soprattutto le spoglie mortali di briganti, colpevoli solo di essere rimasti fedeli ai Borbone e di essersi ribellati al nuovo ordine imposto dai Savoia.
Quest’incredibile accozzaglia di fake ha dato la stura a una vicenda paradossale, che si ricorda per sommi capi: gli ambienti neoborb (che Lino Patruno, ex direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, ha dipinto nel suo Fuoco del Sud) si attivarono in men che non si dica, Iannantuoni ci mise il cappello, e tutti alla carica, prima con manifestazioni di piazza davanti all’ingresso del Museo, poi con una sequela di interrogazioni parlamentari (firmate, tra gli altri, dal deputato calabrese Roberto Occhiuto, oggi aspirante governatore della Calabria), ancora con denunce alla Procura della Repubblica, infine con una causa, intentata dal Comune di Motta Santa Lucia (un paesino di mille anime nel Catanzarese) col supporto del Comitato “no Lombroso” per ottenere la restituzione del cranio di Giuseppe Villella, il pastore mottese dai cui resti Lombroso ricavò la tesi dell’innatismo criminale.
Oltre al processo, si scatenò un putiferio mediatico, che costrinse una parte del mondo accademico a fare un’operazione verità su Lombroso e sul suo pensiero. La prima, è doveroso ricordarlo, è stata Maria Teresa Milicia, studiosa di origine calabrese e ricercatrice dell’Università di Padova, con il bel libro Lombroso e il brigante (2014).
Il processo intentato a Lamezia Terme è finito in nulla: dopo un’ordinanza a dir poco bizzarra del 2012 con cui il giudice Gustavo Danise aveva ordinato la restituzione del cranio, la Corte d’Appello di Catanzaro gelò ogni speranza dei neoborb con una sentenza del 2017, che dichiarava il teschio del povero Villella un bene culturale e ne negava la restituzione.
La botta finale l’ha data la Cassazione nell’agosto 2019, con una conferma totale del verdetto di Catanzaro.
Per il resto, si è registrato il tentativo di portare l’affaire Villella davanti alla Cedu. Tentativo naufragato perché la nuova amministrazione di Motta Santa Lucia aveva preferito disinteressarsi della vicenda, diventata ormai paradossale.
Questo popò di riassunto serve a far capire che don Gennarino merita un complimentone: da novello stregone vudù è riuscito a resuscitare un morto imbarazzante e a renderlo di nuovo presentabile.
Grazie a lui Lombroso è tornato a essere un bersaglio polemico dell’immaginario suddista e la patacca ha ripreso le sembianze di un Rolex originale nuovo di zecca.
Tant’è che in quegli ambienti fanno quasi a pugni per esibirlo al polso. Il primo è stato il senatore lucano ex grillino Saverio De Bonis, che ha lanciato un’interrogazione parlamentare (ad occhio la nona della serie) e ha promesso una denuncia allo Stato italiano reo di tenere in piedi quell’abominio che, a suo giudizio, è il Museo Lombroso.
De Bonis è in ottima compagnia: quella del redivivo Ing. Iannantuoni, di Giuseppe Gangemi (professore universitario vicino ai neoborb e fratello meno famoso dello scrittore Mimmo) e, dulcis in fundo, Pino Aprile, che ha ripreso la vicenda su LaC, la testata calabrese di cui è da poco direttore e che si è rivelata una formidabile postazione di tiro, grazie a una redazione ben rodata.
Inutile dire che, nonostante gli sforzi, anche questa ripresa dell’antilombrosismo rischia di finire nella farsa.
Ma tant’è: De Crescenzo è un uomo carico di ironia, sa vedere il bicchiere mezzo pieno e ha dimostrato che ogni battaglia può sopravvivere a tutto. Anche al ridicolo.
Complimenti ’o Professore.
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,,,,,,,,non è giusro, non è bello, non è cristiano per l’ ennesima volta prendere per i fondelli forse la più grossa testa del meridionalismo attivista esistente
anche se ricordo che ai miei tempi la posizione del movimento era opposta ,,,,,in particolare ricordo cheuno dei massimi dirigenti del settore storico-bellico, il capitano alessandro romano, affermava la necessità di tenere aperto il museo per consentire a tutti di prendere atto degli impressionanti resti umani ivi conservati
e paragonava il tutto all’ esempio ebraico (cosa che faceva molto spesso, forse perchè anche lui ebreo come diversi amici
evidentemente i tempi cambiano e di conseguenza le strategie…….ma la papera fa fatica a galleggiare