Cosangeles, Leporace racconta il suo Sud
L’ex direttore della Lucana Film Commission rievoca la storia recente di Cosenza in un romanzo postmoderno, pieno di atmosfere pulp e di richiami letterari di grande suggestione
Cosenza spiegata ai cosentini, finalmente senza retorica né masochismo.
Per capirci, non si parla più dell’Atene delle Calabrie celebrata da vecchi intellettuali in accademie polverose né, dal lato opposto, della provincia del Sud profondo da cui si scappa bestemmiando.
Bensì, più semplicemente, si narra una città viva, ricca di storia e di storie, molte delle quali stentano a emanciparsi dall’oralità e ad approdare ai media.
Questa città è Cosangeles, in Calbriornia a trenta chilometri da San Francisco di Paola. Ovvero, la Cosenza espansa che ebbe momenti di grande vitalità a cavallo tra i ’70 e i ’90. Questa città, ce la racconta Paride Leporace, giornalista di lunghissimo corso (già caporedattore del Quotidiano della Calabria, fondatore e direttore di Calabria Ora, direttore del Quotidiano della Basilicata e direttore della Lucana Film Commission) nel suo Cosangeles (Luigi Pellegrini Editore, Cosenza 2021), un romanzo-verità costruito con gli stilemi narrativi dell’hard boiled più truce, declinati in chiave calabrese.
Ma, avvertenza doverosa per il lettore, Cosangeles non è un pulp ’i nuavutri, genere che ai cosentini riesce tra l’altro benissimo nelle chiacchiere da bar.
Cosangeles è qualcosa di più e di diverso: il primo tentativo di rendere comunicabile al al di sopra del Pollino e al di sotto dello Stretto una realtà troppo a lungo confinata agli specchi deformanti dei racconti e filtrata solo a volte e con molte censure nelle cronache locali.
È la storia di una città che cercava di sprovincializzarsi come poteva, quando la rete e i new media erano ancora miraggi remoti: importando culture, cucendosele su misura e, nei limiti del possibile, esportando la propria identità composita, non più solo calabrese, non più solo meridionale, ma piena di peculiarità locali che ambivano a una dimensione e collocazione glocal.
Non a caso, Leporace attribuisce la paternità dell’espressione Cosangeles a Jo Pinter, uno dei due protagonisti principali del romanzo.
Pinter, che si ispira all’attore Giuseppe Picciotto, in realtà è un personaggio collettivo, in cui si riflettono decine di cosentini che hanno tentato la fortuna fuori, vivendo, tra un’avventura e l’altra, anche qualche momento di gloria.
Già: secondo la leggenda, l’attore avrebbe coniato il termine sul set di Bonnie e Clyde all’italiana (dove in effetti Picciotto ebbe un ruolo) in risposta a Ornella Muti che gli chiedeva di dove fosse.
E ci piace pensare che Cosangeles (e Calabriornia) contenesse un sussulto di orgoglio identitario e fosse la risposta ad altre espressioni, che molti calabresi delle generazioni precedenti avevano sentito (e subito): Calafrica e Calabria Saudita, per citarne due. Era la nuova retorica della bellezza e del sogno, all’epoca rigorosamente americani, che tentava di scalzare l’altra retorica, quella dell’arretratezza, fino a quel momento predominante nella narrazione del Sud profondo.
Era il desiderio di una città di provincia di farsi metropoli, scavalcando i confini geografici, che all’epoca erano ancora ostacoli di non facile valicabilità.
Cosangeles non parlava più il dialetto celebrato dal celebre poeta Ciardullo – tra l’altro contaminato a dismisura dalle inurbazioni che, sin dall’immediato dopoguerra avevano cambiato il volto e gli stili di vita della città – né l’italiano raffinato degli intellettuali come Nicola Misasi.
Parlava uno slang pieno di allocuzioni, sottintesi e forestierismi, in cui il dialetto si riduceva a un nucleo sempre più piccolo e sempre meno centrale. Questo slang onnivoro rifletteva (e in parte riflette ancora) l’aspirazione a un protagonismo che oggi si definirebbe glocal. Scrive, infatti, Leporace:
«Nel tardo Novecento quella razza maledetta non si era sentita seconda a nessuna. La grande rivoluzione globale dei giovani aveva modificato consapevolezza e arroganza. Secondi a nessuno. Come i ragazzi di “American graffiti” negli anni Sessanta se ne fottevano di essere periferia del mondo. Immersi nel vinile e inseguendo i concerti la tribù dei “Toghi” si sentiva sul tetto del mondo al pari con quelli di Londra» [pag. 14].
Proprio questa attitudine, vissuta a volte sopra le righe, ha consentito a qualcuno dei protagonisti di quella stagione di fare carriera al di fuori dei recinti ultrameridionali delle pagliette bianche (cioè le professioni legali e mediche) e del pubblico impiego.
È il caso, tra gli altri, di Ciccio Paradiso, il secondo protagonista di Cosangeles, che è l’alter ego letterario di Leporace, il quale è stato capace di rompere (lo diciamo senza la minima piaggeria) alcune consuetudini inveterate del giornalismo del Sud profondo, tra cui il cronachismo eccessivo, che si traduceva in mancanza di protagonismo e sostanziale incapacità di dialogare con le grandi realtà culturali e quindi di incidere sul proprio territorio.
Paradiso, nell’economia del romanzo, non è un io narrante ma una memoria storica: lui – a differenza di Pinter che la vive sin troppo – si limita a raccontare Cosangeles e, come ogni giornalista adempie bene al suo compito di storico del presente raccordando il passato recente della città (in cui Cosenza diventa Cosangeles, appunto) con la sua anima più profonda.
Il risultato è più che stimolante: i personaggi di certa mitologia urbana trovano una vita nuova. È il caso di Ciccio Scarpelli, alias Fred Scotti, il cantautore della malavita cosentina, di cui Leporace ricostruisce le vicende – e, soprattutto, la tragica morte – con un piglio che ricorda non poco lo Scerbanenco più ispirato. Oppure è il caso di Franco Pino, il boss dagli occhi di ghiaccio, leader della ’ndrangheta cosentina e primo capomafia calabrese a saltare il fosso.
Pino è il protagonista di un notevole cameo narrativo, in cui racconta sé stesso e, attraverso la propria storia, la malavita cosentina: «Eravamo grattisti e siamo diventati mafiosi». Come a dire che anche la trasformazione della mala cosentina in ’ndrangheta era un passaggio obbligato verso il mondo globale.
Non mancano, in questo viaggio nella memoria, l’omaggio a Radio Ciroma, storica emittente alternativa e voce della generazione non omologata ai consumi culturali medio(cri)borghesi.
Né manca la ricostruzione meticolosa degli stili di vita, declinati prima nei tribalismi politici (le contrapposizioni, spesso violente, tra fascisti e comunisti) e poi, col sopraggiungere del disimpegno, in quelli giovanili (punk, dark, metal e new wave, per capirci).
Di ben altro tenore le avventure rocambolesche di Jo Pinter, che passa da un letto all’altro, si brucia per un soffio un ruolo per Fellini, gestisce rapporti borderline con esponenti di primo piano della ’ndrangheta (da manuale l’avventura in casa di Paolo De Stefano), si lancia in sfide automobilistiche per trovare pace all’estero grazie a un matrimonio ben riuscito. Il tutto raccontato in uno stile pulp pieno di retrogusti piccanti (siamo in Calabria o no?).
Non è il caso di anticipare altro e di spoilerare oltre, per non incorrere nelle ire di Leporace, che non a caso ammonisce alla fine del primo capitolo: «Guardiamoci in faccia: questo libro devo venderlo».
A prescindere dal successo commerciale, che gli auguriamo di cuore, Cosangeles vale più di una lettura: è l’esperimento ben riuscito di trasformare il ricordo in cifra letteraria, di rintracciare nelle storie di una provincia ultrameridionale i tratti comuni a tutte le province del mondo che sognano di farsi metropoli, di trasformare la calabresità in racconto universale, finalmente senza la subcultura del piagnisteo. Di mutare la cosentineria in cosentinismo. Di raccontare, per parafrasare Tolstoj, il mondo attraverso il proprio villaggio.
Cosangeles merita tanta attenzione. E, ripetiamo, la vale tutta.
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