Presa Diretta, la ‘ndrangheta e l’autogol degli avvocati
Nel polemizzare con la trasmissione di Rai Tre i penalisti calabresi partono col piede giusto: fa il tifo per l’accusa. Ma le critiche vanno fuori bersaglio: il processo è troppo grosso e le accuse troppo pesanti per passare sotto silenzio. Il garantismo è sempre doveroso, ma i media non sono aule di giustizia
Le migliori notizie si danno a caldo, ma le migliori riflessioni si fanno a freddo. E ciò vale soprattutto per la recente polemica tra avvocati e giornalisti scoppiata in seguito alla puntata di Presa Diretta dedicata all’inchiestona antimafia Rinascita Scott.
Sgombriamo il campo da equivoci: in linea di principio, hanno fatto bene i rappresentanti del Coordinamento delle Camere penali calabresi a ricordarci, con la loro nota pepata che il dibattimento è sacro, che solo nelle aule giudiziarie si decide il destino delle persone e che il garantismo è un dovere persino nei confronti dei peggiori malacarne (leggi qui).
Hanno fatto bene a ricordarci che esiste una differenza tra il diritto di cronaca e di critica e il processo mediatico.
Viceversa, appare sterile la risposta del gruppo calabrese dell’Unci (Unione nazionale dei cronisti italiani) che contiene la rituale difesa della libertà di stampa (leggi qui): la libertà di stampa non può essere difesa a prescindere da altri valori, altrettanto importanti, perché il diritto-dovere dell’informazione non solo ha lo stesso valore di altri diritti ma è anche quello più suscettibile di abusi e distorsioni.
Detto questo, è doveroso ricordare che una cosa è interpretare le leggi e gestire un dibattimento, un’altra è comunicare. E proprio per questo i penalisti calabresi si sono fatti un bell’autogol.
Vediamo come.
Scrivono i penalisti calabresi, nel consueto stile forense-vintage:
«Non occorreva l’indovino Tiresia […] per immaginare quello che sarebbe avvenuto di lì a poco nella trasmissione televisiva del servizio pubblico “presa diretta”: il processo “Rinascita Scott” è stato celebrato con la condanna anticipata di tutti gli imputati».
È il caso di citare un altro passaggio del comunicato delle Camere penali, che contiene un rilievo non banale:
«Oggi si ha la certezza che la sovraesposizione degli atti d’indagine, interpretati come nelle migliori fiction dai loro stessi protagonisti, verranno valutate come prove della responsabilità penale dei singoli.
Violando la riservatezza e la salvaguardia della “verginità cognitiva” dei giudici, sono stati escussi testimoni, riprodotte intercettazioni (senza il filtro del perito), divulgate immagini, esibiti atti ripetibili d’indagini, il tutto nell’assenza assoluta di un valido contraddittorio. A chi interessa (non si è fatto minimo accenno nella trasmissione) se buona parte (circa 200) delle misure cautelari applicate siano state successivamente censurate nelle sedi giudiziarie del gravame».
Fermiamoci qui, al momento, e facciamo qualche riflessione. In parte gli avvocati calabresi ci hanno preso: è vero, Riccardo Iacona non ha osservato (o non ha osservato molto) il contraddittorio e, tranne che a Salvatore Staiano, avvocato di Giancarlo Pittelli, non ha dato la parola a nessun difensore.
Inoltre, è vero che Iacona si è schierato apertamente con Nicola Gratteri e con la Dda di Catanzaro.
Ma è altrettanto vero che le telecamere di Rai 3 non hanno violato alcuna riservatezza né hanno deflorato alcuna verginità cognitiva, per il semplice motivo che l’una e l’altra non esistono.
Iacona e i suoi collaboratori hanno svolto un lavoro che gli accademici definirebbero compilativo: hanno ripreso alcuni passaggi – i più tragici e significativi – dell’ordinanza di custodia cautelare emessa a dicembre 2019, su cui i cronisti calabresi si sono esercitati almeno per un anno.
Certo, grazie alla potenza e all’abbondanza di mezzi di Mamma Rai il risultato è stato più spettacolare e l’impatto emotivo maggiore, ma la sostanza non cambia: Presa Diretta non ha rivelato nulla che non si sapesse già.
È il caso di evitare le battute e i doppisensi sulla verginità cognitiva che i giudici dovrebbero avere. Ma un’osservazione è doverosa: pretendere la verginità sui dettagli di un’inchiesta così grossa condotta su una mafia tanto potente e invasiva come quella vibonese significherebbe presupporre nei giudici non solo la disinformazione totale ma addirittura l’analfabetismo.
Già: solo un analfabeta riuscirebbe a essere all’oscuro delle vicende pesanti, spesso tragiche e a tratti inquietanti raccontate nell’inchiesta della Dda di Catanzaro.
Tuttavia, agli avvocati calabresi è sfuggito (o forse se lo sono fatto sfuggire) il vero messaggio della puntata di Presa Diretta: certe inchieste scottanti escono ridimensionate o finiscono in niente a causa della corruzione giudiziaria che in Calabria raggiungerebbe vette stellari.
Infatti, l’ultima parte della trasmissione si è soffermata in maniera efficace su Marco Petrini, il presidente di Corte d’Appello di Catanzaro condannato a Salerno per una storiaccia di mazzette che ha fatto indignare i cittadini comuni e ridere i malpensanti.
In questo giro di corruzione, venuto parzialmente alla luce, sarebbe coinvolto anche l’avvocato Staiano, finito anch’esso sotto inchiesta a Salerno, il quale sarebbe stato vicino proprio a Petrini.
Per completare il quadro, è opportuno riavvolgere il nastro di alcuni mesi e richiamare un’altra polemica, scatenata dalle dichiarazioni rilasciate lo scorso dicembre da Gratteri a Giovanni Bianconi del Corriere della Sera in occasione dell’inchiesta Basso profilo, in cui è risultato coinvolto Lorenzo Cesa dell’Udc (leggi qui):
«Se altri magistrati scarcerano nelle fasi successive, non ci posso fare niente, ma credo che la storia spiegherà anche queste situazioni».
Peggio ancora il passaggio successivo dell’intervista, in cui Gratteri si è limitato a rispondere con un allusivissimo no comment a Bianconi che gli chiedeva se ci fossero dei pentiti che avessero fatto le loro brave cantate su presunti giudici corrotti.
Ora, se si rivede a fondo la puntata di Presa Diretta, si intuisce che Iacona ha ripetuto con dati di fatto proprio l’allusione di Gratteri. È possibile che nessuno dei tanti penalisti calabresi impegnati nel braccio di ferro col magistrato antimafia calabrese – molti dei quali dotati di grande cultura, non solo giuridica – abbia colto questa consonanza tra le dichiarazioni di dicembre e la recente trasmissione Rai?
La lezioncina di garantismo imbastita dalle Camere penali risulta debole.
Innanzitutto, perché riflette una certa attitudine avvocatesca a confondere la vita reale con le aule di giustizia. E questa attitudine porta a confondere il valore storico della prove con il loro valore giudiziario.
Detto altrimenti, a credere che la verità giudiziaria sia l’unica possibile e a comprimere quindi il diritto di critica (cosa di cui non ci sarebbe bisogno, perché in molti hanno smesso di esercitarlo) che fa parte del diritto di cronaca.
Inoltre, non è il massimo della correttezza citare le revoche delle misure cautelari come prova della presunta inconsistenza dell’inchiesta della Dda. È vero, le misure censurate sono circa duecento. Ma quante di queste sono state censurate per motivi formali (cioè il venir meno della pericolosità dei soggetti, delle loro possibilità di distruggere le prove o di darsela a gambe) e quante altre, invece, per motivi sostanziali (ovvero l’inconsistenza del quadro indiziario, cioè delle accuse)?
Questa sarebbe l’unica vera risposta. Per il resto, non esistono tiranni (come alludono gli avvocati calabresi) né vittime innocenti, in questa faccenda, ma solo un territorio devastato e una giustizia problematica, che per fortuna continuano a fare notizia, perché l’oblio travestito da garantismo sarebbe comunque peggiore degli strepiti.
Per il resto, non si può dar torto agli avvocati: gli abusi del diritto-dovere di cronaca sono tantissimi, ma non riguardano i maxiprocessi alla Rinascita Scott.
Semmai toccano i tanti casi di cronaca che trasformano le pagine dei giornali, specie calabresi, in bollettini di guerra, di cui sono protagonisti e vittime pesci piccoli sbattuti in pagina senza troppi complimenti, pur di fare cassetta.
Per loro – piccoli ladri e rapinatori spinti più dal bisogno che da presunte vocazioni delinquenziali, pusherini di quartiere e autori di delitti passionali – non c’è alcun richiamo alla riservatezza e nessuna indignazione per le gogne mediatiche che, spesso, risultano devastanti.
Il garantismo è un principio sacro che riguarda tutti e non una questione di parcelle (su cui per fortuna non pochi penalisti spesso sorvolano quando si tratta di sventare ingiustizie). Perciò quel che si invoca per i capimafia, a cui le gogne mediatiche fanno la maggior parte delle volte il solletico, lo si dovrebbe invocare per i calibri mini che non possono permettersi legali stellati anche quando finiscono nel mirino di inquirenti superstar.
È la stampa bellezza? Certo. E la stampa, aggiungiamo noi, ha più diritti nell’attuale sistema processuale di quanti ne avesse prima, perché ora le prove si formano in un dibattimento pubblico, su cui i cittadini hanno il diritto di essere informati.
E la verginità? Lasciamola, per il poco che vale ancora oggi, nella sua sfera più consona. Per il diritto e la giustizia ci vuole un bel pelo sullo stomaco: non sono proprio cose da convento o da educande.
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