Quando il pop è vera arte. Intervista a Massimo Di Cataldo
Il cantautore romano fa il punto sulla sua lunghissima carriera, iniziata precocemente allo Zecchino d’oro e culminata in affermazioni importanti, in Italia e all’estero. Il suo consiglio agli esordienti: siate autentici, non se ne può più dei finti indie coi capi firmati
Ventisette anni di carriera, segnati da successi e apparizioni importanti, non sono uno scherzo. Eppure, Massimo Di Cataldo forse ancora non sa rispondere del tutto alla domanda che si era rivolto nel ’95 a Sanremo: Che sarà di me?
Forse può dire senza timore di sbagliare di essere diventato un artista affermato, di aver superato le mode e, forse, di aver contribuito a lanciarne qualcuna.
Forse può dire, con altrettanta sicurezza, di aver avuto la capacità di imporsi senza piegarsi ai diktat del mercato e senza cadere nei cliché della musica melodica italiana.
Forse può dire ancora di essere riuscito a sviluppare un proprio suono, che è la prima matrice della personalità artistica.
Ventisette anni di attività artistica professionale consentono di tracciare un bilancio e di guardare al futuro con la consapevolezza che molta strada è stata percorsa e ancora ne resta da fare.
Una bella voce (e Di Cataldo ce l’ha) non basta per diventare qualcuno. Servono passione, talento e creatività. Serve la forza di resistere, in un mercato che trita tutto alla velocità della luce. Occorre credere nelle proprie capacità di dare ancora un messaggio al proprio pubblico. C’è bisogno di credere, per citare il titolo dell’ultimo singolo dell’artista romano, un bel pezzo pop come tradizione comanda, interpretato con un crescendo arioso che esalta una melodia potente ma non stucchevole.
Il brano, racconta Di Cataldo, è stato concepito «in macchina, mentre guidavo». Un procedimento creativo particolare ma non atipico: si pensi che allo stesso modo Paul McCartney compose l’immortale Yesterday.
C’è bisogno di credere è nata nel traffico. Come sei riuscito a fissare l’idea e a metterla su pentagramma?
Ho cominciato a canticchiare la melodia già con alcuni versi e l’ho subito registrata con lo smartphone. Arrivato a casa mi sono messo al piano e ho sviluppato il resto. Nel giro di qualche minuto il brano era più o meno fatto. Poi, durante la registrazione, ha preso ulteriormente forma.
Veniamo ai contenuti: viviamo nell’era dell’intelligenza artificiale, ma anche delle fake news, delle postverità e dei cyberattacchi. C’è davvero qualcosa in cui vale la pena di credere? E la vale così tanto da averne bisogno?
Dobbiamo credere nella capacità dell’uomo di affrontare le difficoltà e non dimenticare il coraggio. Non dobbiamo lasciarci allineare passivamente. Sono stati i liberi pensatori a creare quei dubbi che poi hanno aperto nuovi punti di vista e spunti di crescita per l’umanità.
Recentemente ti abbiamo visto in tv su Rai 1, dove abbiamo conosciuto anche i tuoi genitori. Com’è stato duettare con tuo padre e come ha inciso la figura dei genitori sulla tua crescita e sullo sviluppo della carriera artistica?
Avevo cantato tante volte con mio padre ma in quella occasione fu bellissimo: un sogno che si avverava perché ero riuscito a portarlo in tv. Sia lui sia mamma mi hanno sempre sostenuto pur essendo piuttosto apprensivi.
Restiamo nelle particolarità: sostieni associazioni benefiche come Unicef e Greenpeace. Com’è nato questo impegno e in che modo ha influito sulla tua vita personale e professionale?
Un po’ per caso e un po’ per predisposizione. Mi hanno contattato per prendere parte ad alcune manifestazioni e non ho esitato. Sebbene non ci fosse un cachet, ho ritenuto importante dare eco a buone cause. In qualche modo la popolarità può essere utile per veicolare istanze più importanti. In ogni occasione ho fatto delle splendide conoscenze che mi hanno senz’altro arricchito umanamente e di conseguenza artisticamente.
Cosa pensi dell’attuale scena musicale italiana? E cosa cambieresti o miglioreresti?
Trovo che la musica sia diventata un po’ giocattolosa: non si fanno quasi più grandi produzioni, il sound mi sembra standard e le strutture semplificate. I testi sono spesso metaforici e sembrano non raccontare niente di definito. Gli artisti appaiono molto gestiti e patinati. A furia di assecondare questo fantomatico fattore X mi pare si sia perso in autenticità.
Alcuni tuoi successi sono diventati dei classici. Ad esempio, Che sarà di me?, che ricorda gli anni ’90 e la tua bella performance a Sanremo ed è un frutto maturo della tua collaborazione con Marco Patrignani. Che ne è stato di te?
Le risposte alla domanda di quel titolo è stata oltre le mie aspettative dell’epoca. È stato un periodo di grandi collaborazioni e senza dubbio con Marco Patrignani si era creata un’alchimia: la sua perseveranza sul lavoro è tuttora un esempio di grande dedizione e professionalità.
Un altro classico: Se adesso te ne vai. Lo vogliamo rievocare?
Quest’anno fa il venticinquesimo compleanno: un bel traguardo per questa canzone che nacque quasi inaspettatamente. La frase «se adesso te ne vai non me ne frega niente» era uno sberleffo alla mia ragazza di allora, ma si rivelò così efficace da restare nel testo. Pippo Baudo scelse la canzone al primo ascolto e da allora ha girato il mondo.
Continuiamo: da Crescendo a Dieci passando per il successo di Come sei bella. Anni e collaborazioni intense, sempre con il trait d’union di una produzione artistica di livello…
Sono due album totalmente diversi tra loro ma nei quali cominciavo a sperimentare nuove direzioni. Entrambi risultano comunque sempre più diretti verso un sound inglese, con grandi sonorità spaziali e chitarre in primo piano. Cosa rimane di noi, in particolare, sembrava voltare pagina con lo scenario dell’epoca per orientarsi verso le nuove sonorità che avrei ripreso in Come sei bella. Il ventesimo secolo stava per finire e con quella canzone, che all’inizio non fu molto apprezzata, ottenni dei grandi risultati: a tutt’oggi è una delle più visualizzate ed è apprezzata dal pubblico femminile, perché è un omaggio alla bellezza e alla forza delle donne.
Arriviamo agli anni Duemila, segnati da importanti collaborazioni internazionali e dal rapporto artistico con Alex Baroni. Vogliamo approfondire?
Ho avuto una collaborazione importante con un produttore incredibile, Peter Usher, per una versione inglese di un brano del Notre Dame de Paris, ho fatto molti concerti all’estero, fino ad arrivare in Canada, e poi sono stato in Inghilterra a registrare presso il complesso degli studi di Peter Gabriel (che avevo già usato per l’album Dieci). Della collaborazione con Alex Baroni posso dire che era l’inizio di un progetto che avremmo voluto portare avanti. Avevamo un bell’affiatamento sul palco. La sua prematura scomparsa fu un duro colpo.
Quando e come hai capito di avere una marcia in più e un tuo stile peculiare?
Ho avuto la possibilità di lavorare con ottimi produttori, che spesso restavano colpiti da alcune mie soluzioni musicali nella composizione e negli arrangiamenti. Grazie alle collaborazioni con persone di maggiore esperienza ho imparato a realizzare quello che mi girava in testa: così è cresciuto il mio stile.
Il tuo talento musicale è stato precoce. Com’è nata la passione per la musica?
Sin da bambino, probabilmente grazie al mio papà che ne ascoltava tanta e mi faceva giocare con il suo magnetofono col quale registravamo le canzoni.
C’è un episodio che ribadisce la tua precocità: la partecipazione allo Zecchino d’oro. È stato l’avvio di un percorso proseguito con la militanza in gruppi underground. Vogliamo ricordarlo?
La storia dello Zecchino è vera a metà. Io non ero ufficialmente iscritto al concorso estivo per l’ammissione alla trasmissione televisiva. Avevo appena quattro anni e dal pubblico spontaneamente salii sul palco. Mi rivolsi a Cino Tortorella, il famoso Mago Zurlì, e gli dissi con aria determinata: «Io voglio cantare». E mi fecero cantare per davvero. Da allora la stessa determinazione mi ha accompagnato in molti progetti musicali e non solo: mi ritrovai nei contesti underground di fine anni ’80 e nel teatro, anche sperimentale, dei primi anni ’90.
Visto che ci siamo, vogliamo ricordare la tua partecipazione al Festival di Castrocaro, che per te è rappresentato un punto di svolta? Possiamo tracciare un prima e un dopo di quell’esperienza?
Lavoravo nella compagnia teatrale di Tato Russo a Napoli e chiesi un permesso per raggiungere Castrocaro Terme, dove si svolgeva il Festival. Avevo mandato una musicassetta per posta e venni selezionato. Ero emozionato ma mi piaceva molto l’idea di essere lì. Presentavano la serata Claudio Cecchetto e un giovane Amadeus, anche lui agli esordi. Da lì si aprirono tante possibilità per la mia carriera di cantautore.
In base alla tua lunga esperienza, cosa consigli ai giovani che vogliono intraprendere la professione?
Fatevi sentire, dite la vostra e dite le cose come stanno, perché siamo sin troppo pieni di finti indie coi capi firmati. Mettete i vecchi jeans con cui state più comodi e suonate con passione. Non è importante essere bravi ma essere unici. E poi ridatevi i cognomi, per favore: questi nomignoli pseudo originali sono inflazionati ed evocano più dei logotipi che degli artisti. Forse alcuni preferiscono essere identificati con un prodotto che col proprio nome. Lo trovo alquanto svilente.
Quali sono i programmi futuri?
Senza dubbio continuare a fare musica sperando al più presto di poter tornare on stage e soprattutto in tour. Viaggiare è ciò che mi è mancato di più in questi tempi di restrizione.
A proposito di restrizioni: come stai vivendo questo periodo di pandemia?
In generale cerco di conviverci, più o meno come tutti. A volte però provo una rabbia sottile che tende all’implosione come quando si guarda impotenti qualcosa che va in malora ma non ci si può fare nulla. È un vero peccato che tutte le cose meravigliose che potevamo fare ci siano state negate dal virus. Nel bene e nel male ciò tutto influenza anche l’aspetto creativo.
(a cura di Andrea Infusino)
Per saperne di più:
Il sito web ufficiale di Massimo Di Cataldo
Da ascoltare (e da vedere):
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