Pecorelli e i fascicoli del Sifar, una “profezia” di Op
Pubblichiamo integralmente l’articolo apparso sul numero 12 di Op del 27 marzo 1979, l’ultimo diretto da Mino Pecorelli. Il tema è scottante: il trattamento dei fascicoli raccolti dai Servizi Segreti sotto la guida del generale de Lorenzo….
L’articolo che segue (e che riproduciamo integralmente, incluse le peculiarità editoriali e grafiche) è apparso alle pagine 2-4 del numero 12 di Op uscito il 27 marzo 1979, una settimana dopo l’assassinio del suo direttore, Mino Pecorelli.
L’argomento è scottante e tuttora discusso: riguarda la distruzione dei fascicoli raccolti dal Sifar durante la gestione del Generale de Lorenzo. Questi fascicoli, stimati addirittura in decine di migliaia, contenevano le schedature di molte personalità del Paese.
Pecorelli mette in dubbio l’effettiva distruzione di tutto il materiale informativo e suggerisce, tramite una delle sue tipiche (e formidabili) allusioni che parecchio materiale, in realtà, era sfuggito allo “smaltimento” ed era finito in mani non proprio sicure.
Fu una delle ultime “profezie” del celebre giornalista: in effetti tracce consistenti di quei dossier sarebbero state trovate nell’archivio personale che Licio Gelli custodiva a Montevideo…
Il falò dei fascicoli del Sid
La grande fumata
Alle ore 8,30 del nove agosto millenovecentosettantaquattro, un piccolo corteo di auto superava i cancelli del comprensorio militare di Forte Braschi per fermarsi davanti all’ingresso della palazzina n. 4, sede del famoso Ufficio D del Sid. Gli autisti, in grisaglia e guanti bianchi come prescritto nelle grandi occasioni, si diedero subito da fare con maniglie e portiere delle auto, uno ad uno, cominciarono a uscire i presidenti delle commissioni difesa della Camera e del Senato Mario Guadalupi e Walter Garavelli, il dott. Enrico Santacroce procuratore generale militare, di dr. Beniamino Barbato, consigliere della Corte dei Conti, e Mario Siracusa, direttore di cancelleria. Sull’uscio, schierati come il corpo insegnante di un collegio parificato il giorno dell’ispezione, attendevano eccellenze e deputati l’ammiraglio di squadra Mario Casardi, capo del Servizio Informazioni Difesa, ed il generale di brigata Gianadelio Maletti, capo dell’Ufficio D, in un certo senso il padrone di casa. Esperite non senza un certo imbarazzo le formalità di rito, il piccolo corteo, stavolta appiedato, si recò nel locale munito di porta blindata sito al piano terra della palazzina; un piccolo intoppo davanti alla serratura di sicurezza che non voleva saperne di aprirsi, poi tutti dentro il sancta sanctorum dei segreti di Stato. Cominciava così la giornata più lunga dei nostri «servizi».
Quello cui abbiamo assistito non è che l’inizio dell’ultimo atto di una commedia non ancora conclusa intitolata: Distruzione mediante incenerimento dei fascicoli dell’ex Sifar. La storia ha inizio il 4 maggio 1971, il giorno in cui la Camera dei Deputati, al termine della discussione sulla relazione dell’on. Alessi (Pci) che riferiva i risultati della commissione d’inchiesta sui noti eventi del giugno-luglio 1964 nel Sifar, ne faceva propri i quattro punti principali: necessità di una normativa più precisa che definisca funzioni, strutture e dipendenze gerarchiche del Sifar (dal 1 luglio 1966 in onore della riforma ribattezzato Sid); la rielaborazione della disciplina in materia di segreto militare; la eliminazione dei documenti ritenuti illegittimi dalla commissione amministrativa nominata dal ministero della Difesa (commissione Beolchini); il superamento del concetto di «equipollenza» cioè dell’equiparazione degli incarichi Sid agli incarichi specificamente militari.
In verità Ingrao (Pci) alla Camera e Terracini (Pci) e l’«indipendente» Andreini al Senato avevano chiesto alle assemblee legislative provvedimenti più radicali: sciogliere l’ufficio sicurezza patto atlantico (Uspa) distruggendo il materiale informativo, ricostruire le carriere degli ufficiali e dei sottufficiali «discriminati» da De Lorenzo, ma di queste proposte non si trova traccia nella risoluzione finale del Parlamento. Che, per la verità, approvata a larga maggioranza la risoluzione cui abbiamo accennato (a presentarla furono Zanibelli, Bertoldi, Orlandi e La Malfa Ugo) ritenne di aver fatto il proprio dovere in materia di «servizi» ma la questione della normativa e del segreto politico-militare ce le ritroveremo pari pari, irrisolte, cinque anni più tardi, nelle vicende giudiziarie di Piazza Fontana e del golpe Borghese. Questo però è un altro discorso, quanto all’attività della Camera, non vogliamo fare del qualunquismo: sappiamo tutti quanto ci sia da fare a Montecitorio.
Torniamo invece alla distruzione dei fascicoli giudicati illegittimi dal gen. Bocchini. Il 4 giugno del ’71 la Camera impegna il governo a procedere speditamente all’eliminazione e di riferirne al Parlamento entro tre mesi. Passeranno tre anni prima che se ne senta di nuovo parlare.
Spetta all’on. Andreotti il merito di aver rinfrescato la memoria di senatori e deputati. Il 20 giugno 1974 il settimanale Il Mondo ospitava un’intervista di Andreotti in cui l’allora ministro della Difesa, tra l’altro (Giannettini) rivelava che nulla era stato fatto da governi e ministri che l’avevano preceduto, per l’eliminazione dei fascicoli del Sifar. In compenso, in quei tre anni era divampata feroce la polemica sul numero degli schedati e sulla qualità delle informazioni. Ad ogni crisi di governo (in Italia ne avviene in media una ogni nove mesi) l’ombra di De Lorenzo tornava ad aleggiare per i corridoi di Montecitorio e Palazzo Madama. Non c’è stata nomina, non c’è stata destituzione improvvisa che non sia stata spiegata dai soliti portaborse «bene informati» con una frase di sufficienza: sai, hanno avuto il fascicolo e dopo hanno deciso. Né a placare le acque era servito che Paese Sera pubblicasse un lungo elenco di cittadini schedati dal Sifar, pieno di inesattezze e per lo più composto da ottuagenari…
Il punto su cui si accaniva maggiormente la discussione tra parlamentari e giornalisti, era il numero esatto dei fascicoli in questione: Terracini che come gli altri aveva dimenticato di chiedere conferma al governo dell’avvenuta distruzione, affermava che il numero dei fascicoli incriminati era di 34.000, né uno di più né uno di meno; altri documenti parlamentari accennano invece a 38.000, anche qui cifra tonda. Al capo del Sid, responsabile del servizio che gli archivi Sifar aveva ereditato, il numero esatto risultava essere di 16.884 fascicoli ma all’atto dei controlli, taluni documenti risultarono mancanti e vennero ricostituiti ricavando dati ed informazioni da copie di atti conservati presso altre sedi. Ciò fatto, in attesa che un apposito decreto ministeriale ne ordinasse la distruzione, ricostruzioni ed originali furono eliminati dalla circolazione e rinchiusi in apposito locale, isolato, non accessibile al personale dell’ufficio. Almeno così figura agli atti.
A parziale giustificazione dei fatti che i fascicoli da distruggere nel ’71 e nel ’74 non erano ancora stati bruciati, va detto che far sparire un documento «classificato» non è come appallottolare un pezzo di carta e gettarlo nel cestino.
Esiste una precisa legislazione per la conservazione degli atti di archivio, e magistrati e direzione degli Archivi di Stato espressero pareri discordanti in merito alla distruzione del carteggio del Sid.
Insomma, vuoi per la superficialità dei parlamentari vuoi per la controversa interpretazione delle leggi, al 20 giugno ’74 i fascicoli Sifar erano ancora integri.
Svegliati dall’intervista di Andreotti, senatori e deputati riscattano prontamente il lungo torpore. Convocano per il 4 luglio la commissione permanente Difesa e in quella sede Andreotti conferma loro le rivelazioni fatte a Massimo Caprara, il giornalista del Mondo. In particolare, rivela l’esatto numero dei fascicoli da bruciare: aveva ragione Terracini, sono proprio 34.000, alcuni dei quali veri e propri documenti la cui provenienza è nota, altri rappresentati da «veline» anonime.
Comunque, aggiunge il ministro per tranquillizzare gli animi, gli uni e le altre sono gelosamente custoditi a Forte Boccea e non sono stati più alimentati.
La commissione Difesa conclude i suoi lavori il 5 luglio ’74, soddisfatta: Andreotti ha dato la sua parola: entro poche ore gli archivi che agli occhi dei parlamentari rappresentano il pericolo numero uno per la democrazia in Italia, saranno tutti fumo e cenere.
***
Una volta entrati nel sancta sanctorum dei «servizi», la mattina del 9 agosto ’74 a Guadalupi e compagni si presentò uno spettacolo che fece sbarrare loro gli occhi: depositati in dieci armadi corazzati, 364 raccoglitori contenenti 16.884 fascicoli intestati a singole persone, 7.458 atti non nominativi e 68 pacchi sigillati contenenti minute più in disparte, quasi in secondo piano, altri 230 raccoglitori con 16.208 fascicoli intestati, per un totale di 33.092 schede personali.
Nello stesso locale la mappa dello schedario: un elenco nominativo relativo al settore politico-sindacale; un secondo elenco di «settori vari» diviso in due grandi gruppi (dalla lettera A alla E il primo, dalla L alla Z l’altro) con tre settori-bis di aggiornamento, rispettivamente relativi ad informazioni dalla lettera A alla E, dalla F alla O e dalla P alla Z.
Garavelli e Guadalupi si guardano fissi, poi, quasi all’unisono, fanno un passo avanti: hanno messo mano nel male oscuro che da anni infetta il sistema politico della penisola; hanno davanti gli atti relativi al famoso «Piano Solo», baubau della democrazia in Italia e il materiale informativo cui si è, a ragione o a torto da sempre attribuito il malefico potere di condizionare partiti ed uomini politici. Presto tutto finito. Il paese dovrà rendergliene merito: la vita politica procederà più spedita e più efficiente.
Con fare deciso i due parlamentari effettuano alcuni controlli a caso sulle prime schede che gli capitano davanti. Basta un’occhiata per verificare la rispondenza tra i 33.092 numeri di riferimento e i relativi fascicoli. A quel punto prende la parola l’amm. Casardi che comunica in forma ufficiale che quella che si sta esaminando è proprio la documentazione che esorbitando dai suoi limiti istituzionali, il Sifar raccolse nel decennio ’56-’66, nei riguardi di persone appartenenti all’ambiente politico, economico, militare ed ecclesiastico. Detta documentazione era stata già esaminata fascicolo per fascicolo dalla commissione ministeriale presieduta dal generale di corpo d’armata Aldo Beolchini, che ne aveva proposto la distruzione. In attesa della quale, era stata «congelata», cioè isolata e inutilizzata nel luogo e nel modo che erano stati appena visti.
Guadalupi prende buona nota del discorso, poi con un cenno invita Casardi e Maletti a procedere alle operazioni, in precedenza stabilite di concerto. D’incanto la stanza si popola di militari dell’arma. Sono i carabinieri in forza al Sid che in gran fretta vuotano gli armadi dei fascicoli.
L’operazione richiede del tempo, la stanza si riempie di carta e di polvere che fa tossire parlamentari ed eccellenze. Alla fine, tutti i perversi segreti del Sifar sono stipati in 195 scatole di cartone che vengono chiuse con nastri adesivi e caricate su due autocarri. Garavelli, prima di lasciare il locale blindato di Forte Braschi, constata personalmente che negli scaffali non sia rimasta neppure una «velina», quindi raggiunge gli altri e tutti risalgono nelle auto che con i due camion sempre scortati dal personale dell’arma, si dirigono in gran fretta verso l’inceneritore dell’Aeroporto di Fiumicino, dove giungono alle 12, 30.
Nonostante l’appetito, Guadalupi, Garavelli e gli altri assistono personalmente all’inizio del lavori: le scatole contenenti i rapporti segreti sulle massime personalità della Repubblica vengono introdotti nei due forni dell’inceneritore «nella quantità compartita dalla loro capienza», come si legge nei rapporti ufficiali. Le poperazioni durano fino alle 9,15 del giorno seguente. Sotto il vigile e attento sguardo dei membri della commissione, fino alla completa e totale riduzione delle carte in cenere e infine al travaso della cenere in contenitori per rifiuti.
Avrete compreso che in tutta questa vicenda c’è qualcosa che non quadra. Innanzitutto il numero dei fascicoli: 38.000 secondo alcuni, 34.000 per Andreotti, 33.092 quelli rinvenuti e distrutti da Guadalupi a Forte Braschi. Potremmo attribuire la discrepanza ad un semplice arrotondamento (tuttavia 908 personaggi non sarebbero d’accordo), se non ci risultasse da fonte certa che in realtà i fascicoli conservati presso l’ufficio D del Sid nel comprensorio militare di Forte Braschi erano 157.000, una quantità sei volte più grande. Chi ha scelto i 33mila dal mucchio?
Ma c’è un altro punto rimasto oscuro nei rapporti ufficiali: Guadalupi, Garavelli, Casardi, Maletti, Santacroce, Cacciopoli, Barbato e Siracusa hanno distrutto i documenti originali o una copia di essi? Ci risulta che al riguardo dai «servizi» fosse stato richiesto di far risultare chiaramente in sede di compilazione del verbale di distruzione se si trattava di fascicoli originali o in copia. Perché ciò non è stato fatto?
E ancora: abbiamo visto che le operazioni di distruzione sono durate 35 ore. Dalle 8,30 del nove agosto 1974 alle 9,15 del giorno seguente. Possibile che Guadalupi e tutti gli altri non si siano assentati mai un momento? Se l’hanno fatto, come sono stati disposti i turni di guardia?
Tante domande, tanti dubbi, perché proprio in questi giorni torna a circolare con insistenza – ripresa persino da un’altissima personalità della Repubblica – la voce secondo la quale i fascicoli Sifar continuerebbero a condizionare la vita politica. Le chiavi del locale blindato dell’ufficio D del Sid, dal ’71 fino al momento del passaggio delle consegne a Sismi e Sisde, sono state nelle mani di sei persone soltanto. Capi del servizio che si sono succeduti nell’incarico: Eugenio Henke, Vito Miceli e Mario Casardi; e i diretti responsabili del controspionaggio interno: Gasca Queirazza, Maletti e Romeo. È da ritenere che nessuno di questi ufficiali abbia sottratto documenti o effettuato fotocopie. Eppure non v’è dubbio che almeno una parte di fascicoli sia fuggita all’esterno.
Ad esempio materiale relativo a presunti collegamenti di alti ufficiali con ambienti massonici. In quell’occasione il col. Antonio Viezzer, capo della stampa, ebbe a dichiarare che lui, al pari delle tre scimmiette, non vede, non sente e non parla.
[Articolo apparso originariamente nelle pagg. 2-4 sul numero 12 di Op del 27 marzo 1979]
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