Una riflessione a freddo su Tallini
L’arresto del presidente del Consiglio regionale della Calabria getta ulteriori ombre fosche sulla vita amministrativa della regione più povera d’Europa. Il problema, a questo punto, checché ne pensino e dicano i giustizieri, non è più giudiziario. Forse non lo è stato mai…
Anche su Domenico Tallini lo spettacolo si ripete.
In prima battuta, cioè a partire da pochi minuti dopo l’arresto, i giornali online e le agenzie hanno fatto a gara a rilanciare il comunicato, confezionato in maniera piuttosto pedestre, con cui la Dda di Catanzaro ha annunciato l’arresto di Domenico Tallini presidente del Consiglio regionale della Calabria.
Poi, giusto il tempo di far rifiatare i lettori, mentre i tg cominciavano il bombardamento, sono cominciati gli approfondimenti.
Qualcuno ha ripercorso la carriera politica di Tallini (e, ovviamente, ha ricordato con un po’ di malignità i trascorsi da “fascista” nel vecchio Msi del big finito in disgrazia), qualcun altro ha setacciato le 358 pagine dell’ordinanza del gip Giulio De Gregorio in cerca di dettagli succosi, qualcun altro ancora si è soffermato sulle consuete dinamiche politico-mafiose o, tanto per cambiare, sui problemi della Sanità, che in Calabria purtroppo vanno di moda.
Di garantismo, stavolta, neanche l’ombra e, a quanto pare, persino Sansonetti non ha ancora battuto colpo.
Al contrario, c’è chi si è levato i sassolini dalla scarpa. Il senatore pentastellato Nicola Morra, ad esempio, ha ricordato che Tallini era considerato incandidabile dalla Commissione parlamentare antimafia. A lui si è aggiunto Carlo Tansi, ex candidato alla presidenza della Regione, per cui l’arresto del big forzista è una nemesi.
Già: Tansi aveva preso di punta Tallini a botte di epiteti sin dalla campagna elettorale del 2019. E probabilmente non a torto.
Tutti gli altri sono intervenuti con circospezione: solo Salvini ha dato un pizzicotto al boiardo azzurro mentre i parlamentari grillini e Pd hanno buttato tutto nella solita sociologia “massomafiosa”.
Ma resta un dato, che pesa come un macigno: Tallini non è finito in manette per le accuse di Morra e di Tansi (che tra l’altro lo aveva denunciato per diffamazione), ma in seguito a un’inchiesta pesantissima, condotta da Nicola Gratteri coi suoi soliti metodi: ricorso massiccio alle tecnologie, riscontri incrociati, intercettazioni e via discorrendo.
Però i dati che pesano ancor di più sono quelli elettorali.
Infatti, i numeri parlano. E quando, nel caso di Tallini, parlano assai, è persino inutile interpretarli.
Tallini, così racconta la sua biografia nei siti web istituzionali della Regione Calabria, è diventato “mister preferenze” in seguito a una serie di performance elettorali lusinghiere: non è mai sceso sotto i 5mila voti, ottenuti nel 2005 con l’Udeur di Mastella, quando vinse Agazio Loiero, ha raddoppiato nel 2010 nella lista del Pdl, quando vinse Peppe Scopelliti, ha raggiunto il picco nel 2014 (le elezioni attenzionate da Gratteri) nella lista con 11mila preferenze nella lista di Forza Italia, quando vinse Oliverio, ed è calato a circa 8mila voti, sempre con Forza Italia, lo scorso gennaio.
Comunque la si voglia vedere, un centometrista del voto.
È il caso di aggiungere qualche altro dettaglio non proprio piccolo.
Il primo: Tallini ha mantenuto comunque il suo zoccolo duro di consensi a dispetto del calo complessivo dei votanti, che in Calabria sono ormai meno del 50 per cento degli aventi diritto.
Il secondo: Tallini, da semplice candidato in una lista di partito, ha ottenuto in proporzione più voti di Carlo Tansi, che correva alla presidenza, e di Nicola Morra, che ha fruito di un collegio più vasto (quello del Senato) e di una legge elettorale strutturata come un algoritmo da social. Gli stessi social in cui impazza e prende più clic che consensi.
Tutto questo vuol dire che Tallini è stato più bravo? Proprio no.
Vuol dire che in Calabria c’è un problema serio di agibilità democratica.
Anzi, un problema doppio: mentre Tallini ha capitalizzato i suoi voti ed è riuscito a gestirne il calo, Tansi – a cui va comunque dato il merito di aver messo la faccia in una battaglia improba e durissima – non è riuscito a persuadere gli astensionisti a premiare le sue proposte. La vicenda complessa dei grillini calabresi, capaci di suicidare in corsa il proprio candidato, dovrebbe invece suggerire a Morra di contare fino a cento prima di esternare alcunché.
La tragedia della Calabria non è Tallini, nei cui confronti è doveroso comunque essere garantisti.
È la totale mancanza di alternative credibili, che spinge tantissimi calabresi onesti non solo a disertare le urne ma addirittura a dubitare della democrazia. Lo provano le speranze espresse da tantissimi sull’ipotesi della nomina di Gino Strada a supercommissario alla Sanità. In altre parole, la sfiducia nei confronti della propria classe dirigente è tale da sperare nell’arrivo di un non calabrese nominato dall’alto, magari con poteri che neppure Hitler avrebbe dato a un suo Gauleiter.
Siccome la Calabria non si priva di nulla, è doveroso ricordare un siparietto degno del miglior trash: l’ultima apparizione istituzionale di Tallini è avvenuta durante il Consiglio regionale dell’11 novembre, in cui l’assemblea calabrese avrebbe dovuto onorare subito il dettato costituzionale, ovvero prendere atto della morte della presidente Jole Santelli e dimettersi in blocco.
Invece no: i consiglieri, hanno iniziato a discutere un ordine del giorno di ventuno punti pieno di argomenti secondari, e hanno votato lo scioglimento solo alla fine.
La decenza più grande i rappresentanti strapagati della regione più povera d’Europa l’hanno espressa in altro modo: tacendo di fronte all’arresto di Tallini.
Già: quali titoli morali possono esibire lorsignori per giudicare un presidente del Consiglio a cui, tolte poche e dovute eccezioni, non avevano fatto tempestivamente i conti in tasca sulla scaletta dei lavori escogitata per far passare in zona Cesarini decisioni di cui si sarebbe potuto fare a meno?
Una battuta per concludere: Tallini, nel suo presenzialismo istituzionale accanito, ha dato un’interpretazione aggiornata del celebre slogan dei neofascisti calabresi: boia chi molla. Ma il Consiglio regionale l’ha fatto proprio.
Se le premesse sono queste, nessuno può puntare il dito perché tutti mirano a sfruttare al massimo la libidine clientelare insita in certa calabresità profonda.
C’è da sperare solo che questo sia davvero l’ultimo capitolo della peggiore pagina in assoluto delle autonomie calabresi.
Saverio Paletta
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