Trasgressioni elettroniche, gli Inude si raccontano
Il trio pugliese propone dal 2014 una formula particolare, in cui i suoni rock sono diluiti nei dub e nei sequencer. Ma la band annuncia una svolta: dal prossimo album vireranno su sonorità più dure.
Gli Inude sono un trio elettronico formatosi nel 2014 in provincia di Lecce e composto Giacomo Greco, voce, programmazioni, chitarra e synth, Flavio Paglialunga, voce, percussioni, piano e synth, e dal dubmaster Francesco Bove.
All’ep di esordio. Love Is In The Eyes Of The Animals è seguito, nel 2018, il singolo Balloon. Allo scorso anno risale Clara Tesla, il loro primo album.
Musica elettronica e cantato in inglese, provenienza meridionale. È un’ambizione troppo forte, un rifiuto delle radici o cosa?
Cerchiamo di essere internazionali a partire da un luogo non predisposto a questa concezione. Viviamo in piccole bolle musicali che non permettono di guardare fuori regione. Noi ci sforziamo senz’altro di valicare questo confine. Questo per quel che riguarda la nostra attitudine. Ma la nostra è anche una scelta estetica: cantiamo in inglese perché lo reputiamo più aderente alle nostre sonorità per cercare di guardare oltre ma anche perché ci piace esprimerci in questa lingua.
A proposito di estetica e sonorità: il vostro album suona molto più morbido rispetto ai vostri concerti. Anche questo è voluto?
L’album è stato registrato nella più totale solitudine, quindi è un disco introspettivo e meditativo. Tuttavia, abbiamo pensato di far vedere anche l’altra faccia della nostra indole. Per questo abbiamo chiamato Fabrizio Semeraro alla batteria: la sua presenza ha cambiato radicalmente il nostro impatto dal vivo, che risulta molto più forte, ma comunque in linea col nostro background: noi veniamo da generi come il rock, il nu metal e il pop rock.
Voi vivete la difficoltà di appartenere a un genere musicale di nicchia anche nei rapporti con gli altri gruppi. Per quale motivo, a vostro parere, alcuni generi non hanno abbastanza spazio?
La posizione geografica certo non aiuta. In Italia, in genere, non è facile stringere contatti tra gruppi del tuo stesso filone musicale. Forse è più facile avvicinare gruppi di diverso genere. Perché c’è questa concezione che l’avvicinarsi di band dello stesso settore possa portare ad oscurarsi reciprocamente. All’estero hanno capito che fare rete e creare rapporti funziona: si dà la percezione di maggiore forza a determinati ambiti, che diventano perciò meno di nicchia.
Clara Tesla è un album tendenzialmente intimista e pieno di spiritualità. Avete annunciato che i prossimi lavori saranno più spinti. Potete anticipare qualcosa?
Esatto, è proprio quello che stiamo facendo al momento. Di solito scriviamo tutti insieme fisicamente. Nel lockdown, invece, abbiamo sperimentato una forma nuova di scrittura, che per forza di cose partiva da input più individuali: ciascuno di noi ha girato i propri progetti agli altri, che hanno aggiunto le proprie idee. Da questo processo sono usciti vari brani. Quindi abbiamo atteso di poterci vedere per registrare. Ne è derivato un disco diverso. Piuttosto vario: eravamo partiti da un’idea di un disco concettualmente punk, ma alla fine hanno prevalso vari stimoli, che vanno dal folk al rock. Il sound è più forte, per la maggiore presenza della chitarra e della batteria. Insomma, c’è tutto il calore che è mancato a quel blu oltremare che è Clara Tesla. Anche nel cantato c’è stata un’evoluzione verso la forma canzone.
Sempre a proposito di Clara Tesla, il racconto da cui trae ispirazione ha un’ambientazione horror. So che vi piacerebbe scrivere una colonna sonora. Avete in mente qualche pellicola in particolare?
Abbiamo sonorizzato dei film muti assieme a Corrado Nuccini dei Giardini di Mirò. Abbiamo registrato i pezzi e, nella serata finale, abbiamo suonato dal vivo. Inoltre, abbiamo sonorizzato un piccolo videogioco didattico in un museo. Prossimamente si potrebbe lavorare ad un film in uscita e siamo tra i candidati ad una serie su una figura italiana prodotta da Netflix.
Molto spesso la musica elettronica si caratterizza per l’assenza del cantato. O peggio, è bersaglio di pregiudizi, che la fanno diventare sinonimo di musica di bassa qualità. Da cosa dipendono questi stereotipi?
Dalla poca cultura musicale. Ma questo discorso vale anche per l’arte in generale, visto che è stato abolito lo studio della storia dell’arte nelle scuole. Se nelle scuole ci fosse un’attenzione seria verso la musica, si potrebbero stimolare molti talenti e sarebbe possibile diffondere una maggiore consapevolezza. D’altronde, in un Paese come il nostro, in cui l’arte ha un ruolo di primo piano, è assurdo che le scuole diano così poco peso all’arte. Questo discorso, ovviamente, coinvolge la musica elettronica, che è un universo enorme e poco esplorato, che di sicuro non si riduce alla techno. Una maggiore preparazione del pubblico limiterebbe parecchio lo scempio culturale di cui sono corresponsabili molte programmazioni radiofoniche, che bombardano gli ascoltatori di banalità. L’ascoltatore medio non percepisce la differenza tra le hit estive che propongono lo stesso giro di accordi da quindici anni e un’opera che richiede un processo creativo che può durare anni. Non discuto sui gusti, perché anche il cattivo gusto ha diritto di cittadinanza in una società libera, ma vorrei solo che si capissero le differenze di qualità. Ormai l’ambiente è diventato un mercato dove ci si siede a tavolino e si crea musica. I ritmi sono veloci, si devono fare più pezzi per non scomparire e la qualità si abbassa.
(a cura di Fiorella Tarantino)
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