Venti anni non convenzionali, i Giardini di Mirò si raccontano
Corrado Nuccini fa il punto sulla parabola artistica del gruppo emiliano, che propone da cinque lustri un’interessante ricetta sonora a cavallo tra la forma canzone e la musica sperimentale, con incursioni importanti nel mondo del cinema
Da vent’anni gli emiliani Giardini di Mirò sono un nome di riferimento nel panorama indipendente italiano, col loro sound che è un mix di psichedelia, post rock, elettronica, shoegaze e noise.
Il nucleo storico, immutato sin dai tempi antichi, è formato dai chitarristi-cantanti Corrado Nuccini e Jukka Reverberi, dal bassista e fiatista Mirko Venturelli, dal violinista e trombettista Emanuele Reverberi e dal tastierista Luca di Mira. La formazione si è stabilizzata nel 2013, con l’ingresso Lorenzo Cattalani alla batteria.
Il gruppo ha all’attivo otto dischi di cui l’ultimo Different Times (42 Records, 2018), prodotto da Giacomo Fiorenza, e un omonimo libro edito da Crac Edizioni scritto da Marco Braggion con la storia della band. Facciamo il punto sulla loro parabola artistica con Corrado Nuccini.
Qualcuno vi aveva definito una band non convenzionale che fa canzoni non convenzionali. Tu hai commentato: «Spero proprio che questa natura possa continuare ancora a lungo». Per quale motivo?
Noi siamo venuti fuori in un periodo in cui c’è stata la prima convergenza tra quello che oggi viene chiamato indie e il mainstream. Noi veniamo da una cultura che vuole tutelare le diversità culturali e sonore. Ora si fa musica cercando di copiare gli standard musicali che vanno per la maggiore, come avveniva negli anni ’70 quando tutti avevano una matrice simile. Il nostro fine ultimo è proprio la ricerca della non convenzionalità.
Dai primissimi rischi siete stati definiti con l’aggettivo cinematografico. Dopo anni siete stati contattati dal Museo del Cinema di Torino ed è nato Il fuoco, la colonna sonora per l’omonimo film muto di Giovanni Pastrone. E poi Rapsodia Satanica per la pellicola di Nino Oxilia. Com’è stato comporre in modo mirato per il cinema?
Partiamo da un presupposto fondamentale: consideriamo strano l’aggettivo cinematografico che ci hanno attribuito nelle recensioni musicali. Essere associati a una componente cinematografica è diverso dal sincronizzarsi al cinema muto. Rispetto alle altre arti che hanno un supporto fisico, come la pittura o la fotografia, la musica è tutta cinematografica perché vive e aggregandosi a immagini e ricordi. Da Beethoven ai Pink Floyd. Altra cosa è lavorare sul cinema. Come l’esibizione che stiamo facendo noi, in cui il film lo hai dietro. Non è un viaggio interiore ma è un dialogo tra due media in presenza. E non per forza riguarda la capacità cinematografica o evocativa. È un lavoro in tempo reale tra la musica e il cinema.
Ogni disco è un’opera a sé e deve essere valutato come parte di un percorso di vita. Quanto è importante per voi portare avanti la vostra evoluzione senza cadere nelle trappole della nostalgia?
Non so se parlo a nome di tutto il gruppo: io non riesco a innamorarmi del passato ma cerco sempre di proiettarmi verso le cose che devo fare. Per me la musica è qui e ora, ed è un’espressione che dovrebbe essere applicata al momento presente senza essere proiettata né verso il futuro né rivolta al passato.
Ho letto una dichiarazione di Jukka Reverberi in cui parla del pop come terreno di scontro, il campo che la maggior parte delle persone considera prioritario. Per voi serve a misurare le proprie capacità e a sviare dalla banalità alternando soluzioni compositive particolari alla melodia. Come funziona questo metodo di paragone o di scontro?
Io non ho mai lavorato particolarmente su cose pop, né con i Giardini di Mirò e ne in tante altre cose che faccio. Il pop è un concetto mobile che ha caratterizzato la musica della seconda metà del ’900, in cui citiamo David Bowie o Beatles: in questi casi sono sintetizzati ricercatezza, raffinatezza e immediatezza. Ma ogni epoca ha la sua dimensione: non dimentichiamo che a inizio ’900 era popolare la musica di Verdi. Per quanto riguarda noi, il pop è stato un punto di avvicinamento a sonorità intellegibili, mantenendo una componente riconducibile alla forma canzone, che dallo stil novo in poi è strofa e ritornello.
Nell’ultimo disco Different Times è presente la tematica del tempo e dei cambiamenti. Le strutture compositive sono molto semplici ed essenziali con un bel lavoro sugli arrangiamenti e sulle voci. Forse per questo ha richiesto più lavoro. Snellire la musica è complicato?
Sì. Il processo creativo è sempre qualcosa di complesso che gradualmente arriva ad una sintesi, spesso attraverso un processo di sottrazione. Per Different Times siamo partiti da costruzioni semplici e poi riarrangiate con aggiunte e sottrazioni in diverse tornate.
I vostri dischi sono il prodotto di un continuo dialogo, anche telefonico, tra voi. In questo 2020 di riflessione mi siete sentiti spesso per discutere di musica?
Si certo, abbiamo fatto diverse call tutti insieme perché ormai abbiamo delle caratteristiche di famiglia allargata. Nel lockdown la tematica produttiva non è stata primaria perché, come tutti, abbiamo provato sentimenti più basilari come la paura e il desiderio di tutelare i nostri cari. Dopo questa esperienza chi ha una mente creativa non può vedere le cose nella stessa maniera. È il grande fardello e la grande fortuna degli artisti. Dallo strappo si passa alla rielaborazione e infine alla creazione. Sono del parere che è meglio far passare un po’ di tempo per rielaborare gli stimoli.
Come mai proponete dal vivo un disco di 11 anni fa?
Era uno spettacolo tra quelli più di successo e di culto. E ogni tanto lo riportiamo in scena. Lo abbiamo fatto già due anni fa per l’inaugurazione dell’Arena Cinematografica al Palazzo Reale di Torino. Ora, nel post-lockdown, abbiamo pensato che sarebbe stato più congruo uno spettacolo più rock.
(a cura di Fiorella Tarantino)
Per saperne di più:
Il sito web ufficiale dei Giardini di Mirò
Da ascoltare:
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