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Murubutu sul palco

Il rap, dall’antagonismo a Dante. Murubutu si racconta

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Intervista al rapper emiliano che ha trascritto e aggiornato le terzine dantesche. Le riflessioni sul rapporto tra hardcore e rap e il giudizio tranchant sulla trap: una costola dell’hip hop destinata a scomparire

Alessio Mariani, emiliano, classe ’75, è conosciuto dagli appassionati del rap con lo pseudonimo Murubutu.

È fondatore e frontman del collettivo reggiano La Kattiveria, con cui inaugura un filone particolare: il rap di ispirazione letteraria o letteraturap. Nel 2009, contemporaneamente al progetto La Kattiveria, intraprende una fruttuosa carriera solista, in cui rilascia sei album, l’ultimo dei quali, Infernum (Glory Hole Records, 2020) è un concept scritto a quattro mani con il collega marchigiano Claver Gold.

Alessio Mariani alias Murubutu

Tutto è iniziato al liceo, con una canzone ispirata da un brano dei Negazione. E il tuo professore ti ha incoraggiato a continuare. Insegnare è un mestiere che dà un ruolo importante, perché può aiutare a costruire una coscienza critica nei più giovani. Cosa è cambiato da quando eri studente a ora che sei professore?

Vivere in realtà social multimediali rende più difficile diventare dei modelli di riferimento. C’è più scelta certo, ma molto di questo sistema ha una consistenza artificiosa ed è superficiale. E tutto rende più difficile fare presa sui più giovani. Ma i ragazzi hanno sempre un animo sensibile e, sebbene siano dispersi nella marea dei social, resta importante fornire loro ispirazioni importanti a livello culturale. 

La tua produzione unisce rap e letteratura. E questa particolarità potrebbe avvicinare i ragazzi alla lettura. Un esempio importante di questa tua attitudine è il tuo ultimo album, creato assieme a Claver Gold, un concept ispirato all’Inferno dantesco. Com’è nata questa idea particolare? E come si è sviluppata questa collaborazione?

Claver Gold è un amico oltre che un grande artista e avevamo già collaborato tante volte. Ha degli stili diversi da me, ma tra noi c’è comunque una forte affinità. L’idea proviene da lui, che teneva a dedicare l’album a Dante Alighieri. Dal canto mio, posso dire che ero alla ricerca di nuovi stimoli che andassero oltre il mio storytelling tipico e volevo rinnovare la mia forma espressiva. E quale occasione migliore di un tributo al padre della lingua italiana?

L’Inferno di Dante nelle vostre mani diventa una metafora del malessere contemporaneo. Ad esempio, in Caronte si affronta un tema scottante come la dipendenza dall’eroina. Taide racconta i drammi della prostituzione. E Pier è dedicata alle vittime del bullismo. Raccontaci il tuo punto di vista su questo viaggio nel regno degli inferi.

Tutto merito di Claver Gold. Fosse stato per me, Inferno sarebbe stata un’operazione più didascalica: avrei trasposto in esametri le terzine dantesche e mi sarei limitato a una riduzione sintattica. Claver ha visto la possibilità di attualizzare tematiche e c’è da dire che in qualche brano ci siamo riusciti. Certo, traslare l’immaginario medievale nella contemporaneità non è stato facile e non è stato sempre possibile. Infatti, alcuni brani sono rimasti legati al modello letterario originale. 

Claver Gold e Murubutu

Sia in Infernum sia nel precedente Tenebra è la notte ti esprimi spesso in prima persona. Entri nel racconto per far parlare i personaggi dei brani. Qual è la differenza dal racconto in terza persona?

Solitamente scrivo in terza persona per raccontare di qualcuno che fa qualcosa. Anche quando mi esprimo in prima persona descrivo sempre un punto di vista altro, diverso dal mio. Invece Claver Gold scrive spesso in prima persona perché parla di se stesso, quindi esprime un punto di vista più autobiografico. Negli ultimi due dischi ho scritto in prima persona anche per cambiare la prospettiva del racconto. Ma resto convinto di una cosa: ciò che crea empatia attorno a una storia è solo il modo in cui la scrivi, non il punto di vista o, per dirla in termini cinematografici, l’inquadratura.

Hai parlato spesso del rapporto particolare tra hardcore e rap. Cosa li accomuna e quali sono le divergenze? E cos’è cambiato nei rapporti tra questi generi? Infine: la trap, ultimo filone del genere, è solo una moda del momento?

Hardcore e rap nascono come espressioni musicali fondate sull’antagonismo, sulla ribellione e sulla protesta politica. E trovano un ambiente comune nei centri sociali. Negli anni ’90 era molto facile trovare una serata in cui si eseguivano entrambi i generi, che a un certo punto si sono anche contaminati a vicenda. Poi l’hardcore è rimasto fedele alle tematiche antagoniste, il rap, invece, ha sviluppato di più la sua tendenza mainstream, che era già nel suo dna: non è stato mai musica solo di protesta ma ha avuto da sempre una forte componente ludica, che ha consentito a molti artisti l’ingresso prima nei club e poi nelle classifiche. Oggi in giro c’è molto più rap perché questo genere è uscito dai centri sociali e ha invaso altri luoghi. L’hardcore, invece, è rimasto più legato ai suoi luoghi vocativi, che sono appunto i centri sociali, sebbene abbia ora anche spazio in festival, come a Bologna. 

Per quel che riguarda la trap ho sempre pensato che fosse un genere di passaggio. Ora negli Stati Uniti questo fenomeno è un po’ in calo, ma perché quella è una scena molto dinamica, che bisogno del cambiamento. In Italia, invece, è ancora fertile anche se si cominciano a vedere anche qui le prime avvisaglie di cambiamento. Per me la trap è una costola dell’hip hop che si sarebbe sviluppata e sarebbe scemata velocemente. 

Hai all’attivo tante collaborazioni: Rancore, Ghemon, Caparezza, Mezzosangue e Willie Peyote. Quanto è importante non chiudersi nella propria musica ma cercare scambi di idee e di stimoli, soprattutto nell’hip hop?

Nell’hip hop è importante collaborare perché la contaminazione è parte integrante del genere, che molto espressivo, diretto e d’improvvisazione. Collaborare con altri aiuta a potenziare queste caratteristiche, che definirei genetiche, del genere. Io ho avuto la fortuna di collaborare con artisti che stimo molto e sono aperto a collaborazioni con artisti di altre generi: ad esempio Fiorella Mannoia, Vinicio Capossela o Levante. Oggi tutto questo è molto più semplice perché l’hip-hop è sdoganato.

Murubutu in azione

Lo scorso febbraio è uscita la raccolta illustrata Rapconti. Che sin dal titolo, peraltro geniale, apre un mondo. Ci dai qualche chiave di lettura?

Si doveva chiamare Antologia di racconti illustrati, ma ci hanno chiesto di accorciare il titolo. Nasce da una collaborazione con Roby il Pettirosso, grande pittore e scrittore. Porteremo in giro un live in cui lui dipinge in digitale in diretta. Si è presentato a me come fan e sono rimasto molto colpito dai suoi disegni. E il libro raccoglie tutte le favole che aveva già elaborato nel corso dei live.

Hai dichiarato che sogni di scrivere qualcosa per il teatro. E, a sentire i tuoi lavori, si intuisce che potresti benissimo scrivere anche senza pensare alla musica.

In effetti, ho ricevuto molte proposte editoriali. Appena avrò tempo mi dedicherò alla scrittura teatrale e alla narrativa. Ci sono molte differenze tra scrivere canzoni e scrivere in maniera letteraria. Nel primo caso si mira sempre a sintetizzare, cosa che per alcuni può sembrare più difficile, nel secondo caso, si deve scendere nei dettagli, un aspetto che ha difficoltà diverse. Bisogna solo sperimentare e penso che lo farò.

(a cura di Fiorella Tarantino)

Per saperne di più:

Il sito web ufficiale di Kattiveria-Murubutu

Da ascoltare:

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