Quei briganti che non piacciono a Di Fiore
Il giornalista napoletano attacca a testa bassa Marco Vigna sulle colonne de “Il Mattino”. Il recente libro dello storico torinese non gli è proprio andato giù. E crediamo di aver capito perché…
Le recensioni e le polemiche sono cose serie, come cerchiamo di dimostrare da qualche anno sull’IndYgesto, dove cerchiamo di osservare una regola banale: leggere per davvero i libri di cui ci occupiamo, verificarne gli spunti interessanti e gli elementi più deboli prima di parlarne, anche in maniera critica.
Purtroppo, questa pratica (che non è virtuosa ma doverosa) sembra essere in calo nella stampa mainstream, dove sembra quasi che il cosiddetto potere di firma autorizzi a facilonerie.
È il caso recente di Gigi Di Fiore, giornalista di punta e di notoria bravura de Il Mattino e scrittore affermato.
Di Fiore ha pubblicato a pagina 13 del numero del 3 agosto del glorioso quotidiano partenopeo, un articolo in cui polemizza con lo storico Marco Vigna, fresco autore di Brigantaggio italiano. Considerazioni e studi nell’Italia unita (Interlinea, Novara 2020), un saggio corposissimo dedicato, appunto, al brigantaggio postunitario.
Fin qui nulla di strano: dissentire e polemizzare è un diritto di tutti, specialmente dei giornalisti, che pagano. Il problema è il modo.
È tutta una questione di stile, che il bravo giornalista napoletano stavolta ha dimostrato di non avere.
Già: «I briganti criminali? Una tesi di 160 anni fa» (leggi qui), questo è il titolo dell’articolo di Di Fiore, è un esempio da manuale di polemica giornalistica di piccolo cabotaggio.
Infatti, il giornalista non menziona il titolo del libro di cui contesta le tesi, si lascia andare a considerazioni personali (tra l’altro non riscontrate) sull’autore e poi si lancia in divagazioni intellettuali, con le quali dimostra di avere a malapena sfogliato il libro.
A questo punto la domanda sorge quasi spontanea: come mai un giornalista di fama se la prende con uno studioso che ha scritto un saggio destinato alla comunità degli studiosi e alle persone di cultura, e quindi con possibilità ridotte di incidere sull’opinione pubblica?
La risposta potrebbe essere banale: Vigna, nel suo volume, affronta il brigantaggio sotto due angoli di visuale, quello criminologico e quello dell’ordine pubblico. Detto in maniera più grossolana, lo storico torinese considera questo fenomeno tragico un esempio di politicizzazione di un fenomeno criminale di massa. Nulla di strano o di scandaloso in questa lettura, tra l’altro fatta propria lo scorso anno da Carmine Pinto nel suo La guerra per il Mezzogiorno (Laterza, Bari 2019), caso raro di un saggio scientifico diventato best seller.
La differenza tra i due autori è nell’approccio: Pinto tratta il brigantaggio come una parte (non secondaria, certo, ma solo una parte) dei rapporti conflittuali tra la corte borbonica in esilio a Roma e il neonato Regno d’Italia, per Vigna il brigantaggio è l’oggetto principale d’interesse, di cui si esamina l’evoluzione da fenomeno criminale a fenomeno politico-criminale.
Questa chiave di lettura, basata su un solido realismo, modifica non poco la rotta tradizionale degli studi sul fenomeno brigantesco, finora condizionata non poco dalla tradizionale impostazione gramsciana, ripresa da Franco Molfese, che resta un classico sull’argomento.
Sì, avete capito bene: è tutta una questione scientifica, che andrebbe trattata con criteri scientifici anche nel dibattito giornalistico, visto che non si parla di calcoli vettoriali o di chimica molecolare, bensì di storia.
E il compito sarebbe alla portata di Di Fiore, che ha dimostrato di essere un bravo cultore di storia (da manuale la sua storia della Camorra…).
Invece, il giornalista napoletano si produce in illazioni personali degne di certo repertorio neoborb, che riportiamo parola per parola:
«Si capisce che Vigna deve molto al suo maestro Barbero, che considera il brigantaggio «ostaggio del Movimento Neoborbonico», consapevole che solo una polemica di questo tipo può sostenere lo studio che presenta».
E ancora:
«Marco Vigna, finora studioso di Storia della spiritualità medievale e titolare di un dottorato di ricerca all’università del suo mentore Alessandro Barbero».
Due vistose inesattezze.
Barbero è solo il prefatore del libro di Vigna, il quale non è stato mai allievo del celebre storico torinese, né come studente universitario né come dottorando. Vigna, infatti, si è laureato e ha conseguito il dottorato in università diverse da quelle in cui ha insegnato Barbero. La geografia smentisce Di Fiore.
Inoltre, cosa significa l’espressione «finora studioso di Storia della spiritualità medievale»? Forse che un medievista non possa occuparsi validamente anche di Storia contemporanea? Se possiamo farlo noi giornalisti, spesso prendendo brutti svarioni, cosa vieta a uno specialista di sconfinare in un’altra specialità affine, per affrontare la quale comunque possiede già il metodo?
Ma c’è di peggio: l’accusa di aver piegato le fonti alla tesi del brigantaggio criminale.
Scrive Di Fiore:
«Mirate alla tesi finale le fonti utilizzate, consultato quasi solo l’Archivio di Stato di Torino, quando i tre libroni pubblicati anni fa dall’Archivio centrale dello Stato danno il quadro completo delle fonti archivistiche sul brigantaggio post-unitario, Vigna, che viene definito «storico professionista» […] si spinge a dire che il brigantaggio è parente stretto delle mafie».
L’inesattezza, in questo caso è più grave, perché mette in dubbio, in punta di allusione, la competenza e il rigore dello storico torinese. Infatti, basta sfogliare per davvero il libro di Vigna per rendersi conto della mole delle fonti: i documenti utilizzati provengono da tredici Archivi di Stato e quelle di Torino (che comunque ha una gran quantità di materiali, considerato che fu la capitale del Regno nei primi anni della lotta al brigantaggio) sono citate in meno di un quinto del corposo apparato di note del libro.
Ma la perla arriva con la citazione di Carmine Crocco, il celebre capobrigante lucano, il quale dichiarò a Salvatore Ottolenghi e Domenico Ribolla che «il mafioso è lo spurgo del mio naso». La solita vecchia storia del brigante buono e del mafioso cattivo, insomma.
Il problema, che evidentemente Di Fiore non coglie, è l’attendibilità della fonte: ci sta che un celebre brigante dichiari di essere cosa diversa da un mafioso, che addirittura disprezza; ma basta questo per affermare la radicale diversità tra mafiosi e briganti e trasformare questi ultimi, come spesso si è fatto, in banditi sociali sul modello letterario di Robin Hood? Questo metodo va bene nei libri per turisti che si vendono alle bancarelle estive di remainders, la storia, quella vera, è un’altra cosa e, spesso, un attento studio delle fonti rivela forti similitudini tra l’agire mafioso e il brigantaggio.
L’oste dice sempre che il proprio vino e buono. Il sommelier ha il dovere di non credergli sulla parola e verificare con le sue tecniche di degustazione.
Lo stesso discorso vale per la storiografia e il brigantaggio. Delle due l’una: o Di Fiore non è un intenditore di vini o, addirittura, è astemio…
Anche la lista dei consigli delle letture è uno spasso:
«Sales [Isaia Sales, Nda], la cui lettura più ampia consiglio a Vigna insieme con i testi di Umberto Santino, Enzo Ciconte, Antonio Nicaso, Salvatore Lupo».
Se solo si fosse dato la pena di scorrere bene la bibliografia del libro che critica, Di Fiore si sarebbe accorto che, nell’elenco mostruoso (ben 454 titoli) di libri compulsati da Vigna, figurano quasi tutti gli autori citati: in cima alla classifica c’è Lupo, di cui Vigna cita sette libri, ci sono senz’altro Nicaso e Sales. E c’è Ciconte, di cui lo storico torinese cita due titoli e critica le tesi. Manca alla conta Santino. Che dite: la lacuna è grave? Il problema è che le fonti non si usano un tanto al chilo e non è detto che alcune presenze (o, viceversa, assenze) possano inficiare un discorso storiografico.
Sarebbe da passare sotto silenzio la critica alla parte del libro di Vigna dedicata alle normative, borboniche prima e italiane poi, per la repressione del brigantaggio. Lo studioso piemontese sostiene, con una certa onestà, che il problema di ordine pubblico provocato dal brigantaggio fu avvertito in maniera simile sia dalla vecchia classe dirigente napoletana sia da quella post risorgimentale. E certo, anche da quella francese, che applicò la legge marziale.
Di Fiore si limita a citare un testo di Pasquale Troncone per dire che la legge Pica aveva violato lo Statuto Albertino. Sarà anche vero, ma Di Fiore, che è laureato in Giurisprudenza, dovrebbe ricordarsi che lo Statuto Albertino era una costituzione cedevole, cioè poteva essere forzata con leggi ordinarie, a differenza della Costituzione attuale che richiede un procedimento più macchinoso. E, soprattutto, dovrebbe ricordarsi che l’ordine pubblico e la sicurezza sono priorità assolute degli apparati statali, che notoriamente agiscono anche per reprimere.
A cosa è dovuta tanta foga nel rigettare le tesi di uno studioso con metodi a dir poco inopportuni? Viene il dubbio che Di Fiore, in fin dei conti, abbia voluto difendere le vecchie tesi gramsciane, sulle quali ci sarebbe da discutere fin troppo, per difendere le proprie controstorie, che invece vi pescano a piene mani. Sarebbe solo una faccenda editoriale, insomma.
Ma se le cose stanno davvero così, Di Fiore non ci fa una bella figura: attacca (criticare è un’altra cosa…) uno studioso di cui non condivide le tesi da una postazione di tiro fortissima come Il Mattino a botte di illazioni, senza darsi neppure la pena di verificare quel che scrive. Una cosa facile, visto che dall’altra parte c’è solo un piccolo editore di libri. Per fortuna, la rete consente di reagire. Magari non di pareggiare il colpo, ma di mettere in discussione comunque un certo modo di fare, di cui credevamo che Gigi Di Fiore (del quale abbiamo sempre apprezzato il garbo e la scrittura documentata ed elegante) fosse immune.
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Il classico metodo dei borboncini di sminuire chi confuta le loro tesi: non potendo attaccare il ragionamento, attaccano il ragionatore.
Caro Giovanni,
Se si riferisce a Di Fiore, ha ragione. Purtroppo, aggiungo io: il giornalista napoletano, al di fuori della bizzarra narrazione noborb, che ha sostenuto fino agli attuali anni ’20, è davvero formidabile.
Grazie per l’attenzione.
Gentilissimo dottor Paletta, credo che il simpaticissimo De Crescenzo sia un lettore distratto. Nella sua lettera alluvionale ci tiene a precisare con sussiego che Vigna con le sue tesi smentirebbe nientemeno che Benedetto Croce. Peccato che Croce (Storia del Regno di Napoli, Bari, Laterza 1966, p. 235), dopo aver ricordato che il Regno morì non del tutto ingloriosamente, continui: “Meno gloriosamente finiva la dinastia borbonica, chiamando ancora a far le sue vendette le rozze plebi, e non trovando quasi altri campioni che truci e osceni briganti. Così porgeva l’ultimo documento che essa ormai, nella vita dell’Italia meridionale, rappresentava, irrimediabilmente, la peior pars”.
Il libro di Vigna non piace neppure a Gennaro De Crescenzo, presidente neoborbonico, che scrive indignato al giornale “Il Mattino”, che lo ha recensito, una chilometrica lettera di contestazione. Se e quando lo riterrà opportuno, Vigna risponderà. Per intanto va notato che a Vigna si contesta, con grende eleganza, di essere “un autore esperto di storia medievale (punto di contatto con Barbero)”, di avere forse “una motivazione precisa che non ha il coraggio di rendere pubblica”, di non tener conto dei “200.000 soldati sabaudi” (sic) inviati a reprimere il brigantaggio e di sostenere la “tesi centrale di alcuni convegni organizzati dalla massoneria negli ultimi anni” con argomenti nei quali si sente “l’eco delle tesi razziste di Cesare Lombroso”. Forse, si chiede l’eroico difensore del Sud, i briganti uccidevano meridionali o violentavano donne? E la risposta gli pare indubbia.
P.S. De Crescenzo promette anche “nel prossimo autunno importanti novità archivistiche” sulla famosa questione di Fenestrelle. Attendiamo, tanto sono otto anni che aspettiamo.
Egregio Professore,
Mi occuperò a breve delle recenti esternazioni del simpaticissimo De Crescenzo, che tra l’altro continua a sparare ad alzo zero (così mi è stato comunicato) dai propri canali Facebook sul libro di Vigna (e, indirettamente, sul Mattino “reo” di averlo recensito).
La storia del complotto demo-pluto-massonico (tolgo “giudo” perché dubito che De Crescenzo abbia simpatie di un certo tipo…) è decisamente vecchiotta e logora.
Io mi faccio più banalmente una domanda: costoro hanno letto per davvero il libro contro cui polemizzano? Di sicuro non l’ha letto Di Fiore. E credo di non allontanarmi troppo dal vero nel pensare la stessa cosa di De Crescenzo, che al massimo lo avrà sfogliato.
Già, cinquecento pagine cariche di documenti, citazioni e analisi (anche giuridiche) non sono una “pasticchetta” che si possa mandar giù in pochi giorni.
Ma, evidentemente, il gusto di polemizzare a testa bassa nei confronti di chiunque, anche nella maniera documentatissima di Vigna, metta in discussione certe tesi è più forte di ogni cosa.
Tuttavia, De Crescenzo è simpatico così: perché pretendere che cambi?
Grazie come sempre per l’attenzione.
Saverio Paletta
Libro molto , molto interessante, molto documentato. Non poteva piacere a Di Fiore