Le promesse con cui ci trascinarono in guerra
Un classico di Leo Valiani racconta le delicate trame diplomatiche con cui le potenze dell’Intesa convinsero la classe dirigente italiana a scendere in campo contro le potenze centrali: misero sul piatto le “terre irredente”, tra cui la costa orientale dell’Adriatico e da lì nacquero i problemi successivi…
L’incontenibile euforia della Belle Époque lascia il posto alla conta macabra, di milioni di morti, della Grande Guerra.
Una generazione cancellata ed un assetto europeo completamente stravolto, con la scomparsa degli imperi russo, tedesco, ottomano ed austro-ungarico.
Le sorti di quest’ ultimo, vengono dettagliatamente ricostruite nel classico di Leo Valiani, La dissoluzione dell’Austria Ungheria (1966), in cui si riportano interi stralci di corrispondenza diplomatica – tra ambasciatori e rispettivi ministri degli Esteri – scambi espistolari tra noti giornalisti, politici e diplomatici, parti di articoli della stampa dell’epoca.
Valiani racconta nel dettaglio le vicende degli Stati che entrarono nel conflitto (o meglio, vi precipitarono) ed elenca le trattative, ufficiali e ufficiose, le confidenze tra politici, intellettuali e diplomatici, e le impressioni sui leader dell’epoca.
In questo ginepraio, che sfociò nella prima tragedia del ’900, emerge il reticolato dei rapporti intessuti dall’Italia con i componenti della Triplice Alleanza e della Triplice Intesa. E, ovviamente, colpiscono le impressioni e riflessioni suscitate dal nostro Paese all’estero dai punti di vista socio-politico ed economico-militare.
Soprattutto quelle relative al periodo che va dall’attentato di Sarajevo al Patto di Londra e quindi all’intervento nella Grande Guerra.
L’Italia, complessivamente, è vista con rispetto, ma anche con timore: se ne conoscono le rivendicazioni territoriali ma si intuisce anche che il momento storico oggettivamente favorevole ad un accrescimento del ruolo e dell’influenza italiani nel Mediterraneo e nell’area Balcanico-Danubiana.
A completare il quadro, i molteplici interrogativi aperti dall’agonia delle due grandi monarchie, quella asburgica e la Sublime Porta ottomana: cosa sarebbe successo dopo il loro crollo e, quindi dopo la fine della loro importante funzione mediatrice negli equilibri territoriali europei?
Certo, il vuoto di potere che i due imperi avrebbero lasciato si rivelava un’occasione ghiotta per accrescimenti territoriali e per un nuovo disegno geopolitico del Vecchio Continente, di sicuro più favorevole a Inghilterra e Francia. Tuttavia, solo in pochi, negli ambienti politico-diplomatici, avevano valutato le conseguenze di lungo termine di un crollo così repentino.
In Italia, all’inizio del conflitto, cominciò il dibattito tra neutralisti e interventisti, condito da un dialogo serrato con i due blocchi di contendenti, già in armi, anche per ottenere quei territori che avrebbero consentito di completare L’unità del Paese.
Il Patto di Londra, siglato segretamente con le potenze dell’Intesa il 26 aprile 1915, fu la conseguenza di questo balletto diplomatico molto sofisticato: fruttò all’Italia la promessa formale, in caso di vittoria, di Trentino, Sud Tirolo fino al confine naturale, Venezia
Il Patto di Londra fu voluto dal presidente del Consiglio Antonio Salandra e dal ministro degli Esteri Sidney Sonnino.
Secondo i documenti riportati da Valiani, l’Italia aderì al patto dopo lunghe trattative e in seguito a calcoli geopolitici delicati sotto la spinta di alcune scelte militari anglo-francesi: tra queste la forzatura del passaggio ai Dardanelli per consentire lo sbarco russo a Salonicco e aprire per un altro fronte nei Balcani.
Ciò avrebbe inserito il Mediterraneo a pieno titolo nel teatro bellico. C’è da dire che, in prima battuta, gli italiani non sembrarono premere in maniera particolare per Fiume, probabilmente perché non si pensava che il crollo politico degli Asburgo sarebbe stato così repentino.
Nel marzo 1915 sir Edward Grey il Ministro degli Esteri britannico chiese a Roma, a nome di tutta l’Intesa, di trovare un accordo sulla Dalmazia: l’Italia rinunciò a Spalato, e i russi accettarono che la costa dalmata, da Zara a Sebenico, passasse all’Italia. La Russia, inoltre, abbandonò Costantinopoli.
Questa è la premessa che rese possibile il Patto di Londra.
Sergej Dimitrievic Sazonov, il ministro degli Esteri russo, era tuttavia pessimista sull’intervento italiano, viste le divergenze tra Italia e Serbia. Infatti, un altro attore importante sulla scena europea dell’epoca era Nikola Pasic, il primo ministro serbo, a cui erano già state chieste, a inizio 1915, alcune concessioni territoriali in Macedonia a favore dei bulgari, per evitarne l’ingresso in conflitto al fianco degli Imperi centrali. In cambio, Pasic aveva chiesto la Bosnia-Erzegovina, il Banato e la Dalmazia, ma le ultime erano già state rivendicate rispettivamente, da Romania ed Italia.
I francesi, a questo punto, tentarono di mediare: proposero, per i serbi, la parte occidentale del Banato e quella meridionale della Dalmazia, ma non si giunge ad un accordo. Pasic, quando seppe da alcuni futuri leader del comitato jugoslavo, che si sarebbe costituito a Parigi il, 30 aprile 1915, che presumibilmente si era giunti all’accordo con l’Italia sulla Dalmazia, inviò due note di protesta: il 9 aprile al governo russo e il 7 maggio a tutti i Paesi dell’intesa.
È interessante osservare, il ruolo dei maggiori giornali dell’epoca tra l’inizio delle ostilità e il Patto di Londra. Al riguardo, Valiani, riporta il testo di una lettera del 24 agosto 1914, inviata da Giovanni Amendola, corrispondente politico del Corriere della sera, a Luigi Albertini su una conversazione, avuta alcuni giorni prima, con l’ambasciatore russo, Krupenski, e quello francese, Barrére:
«Barrére mi aveva parlato, genericamente, delle buone disposizioni franco-inglesi verso l’Italia. Troppo poco, troppo vago. Ma in fatto di politica adriatica, gli ostacoli maggiori, non ci potevano venire da Inghilterra o dalla Francia; bensì dalla Russia, che poteva avere piani favorevoli alla Serbia. Mi recai perciò da Krupenscki […] mi parlo in via riservatissima, dichiarandomi che mi avrebbe smentito nel modo più categorico se avessi pubblicato il nostro colloquio».
Nella lettera, Amendola parla dell’appoggio dei russi alla Serbia:
«Uno sbocco sul mare adeguato alle necessità commerciali del paese; ma non inteso a dare alla Serbia la possibilità di diventare una potenza navale importante [….] se entrate ora nel conflitto potrete essere i padroni dell’Adriatico [….] stabilirvi in Dalmazia, salvo l’accesso al mare per la Serbia. Potrete, oltre a ciò, avere il possesso di Valona [….] oltre a Trentino ed Istria».
Valona, con la concessione alla Grecia di estendersi a nord della stessa, sarebbe «Gibilterra italiana su territorio greco». Il giornale l’Unità, nell’aprile 1915, estrasse e pubblicò da Guerra e democrazia, un volume di vari autori uscito a Londra alla fine dell’anno precedente, parti essenziali dei capitoli sulla monarchia danubiana, scritti dallo storico Robert William Seton-Watson.
Watson ricordava di avere creduto a lungo nell’utilità della monarchia danubiana come punto di equilibrio. Tuttavia, a suo giudizio, i popoli non venivano trattati in maniera equanime:
«L’abbandono degli slavi e rumeni di Ungheria, Transilvania e Croazia, all’oppressione dell’oligarchia magiara [che l’autore definiva il «cattivo genio dell’Austria»] e l’aggressione alla Serbia. […] Solo una pace di compromesso avrebbe potuto salvare l’Impero, ma l’autore ne avversava i fautori, che diceva essere numerosi nella classe dirigente inglese […] una pace di “stallo” avrebbe portato a una nuova guerra».
Seton-Watson e Wickham Steed, primo redattore di politica estera del Times (e, dopo il 1919, direttore della celebre testata) sostennero fortemente i principali esponenti del comitato jugoslavo.
I due caldeggiarono, anche in ambienti politico-diplomatici di vertice, la ragioni del progetto jugoslavo e, soprattutto la figura di Franjo Supilo, esule croato-dalmata, giornalista, membro del comitato jugoslavo, ed ex deputato del parlamento ungherese. Gli ambienti politico-diplomatici britannici miravano comunque, in prima battuta, soprattutto a difendere lo status quo, grazie all’impegno di una diplomazia molto esperta e abbastanza prudente, non alla guerra. Infatti, nell’alta società britannica permarranno sentimenti filoaustriaci e filoungheresi. Solo la forte ascesa tedesca e quelle che vengono percepite come velleità espansionistiche pericolose faranno mutare molte opinioni.
La Germania, sul fronte della Triplice Alleanza, cercherà di caldeggiare concessioni all’Italia, intuendo che il nostro Paese e la Romania potevano avvicinarsi all’Intesa, ma non riusciranno ad arginare in tempo le tattiche delatorie, a livello di concessioni territoriali, da parte dei vertici politico-istituzionali austro-ungarici, che comprenderanno troppo tardi la situazione.
La monarchia danubiana, si risolse a offrire all’Italia, di fatto, solo il Trentino, rettifiche sull’Isonzo, e Valona, pretendendo, in cambio dell’influenza prevalente nei Balcani, quella che sarà chiamata una benevola neutralità. Il cancelliere tedesco, Bethmann Hollweg, per indurre gli austro ungarici a fare concessioni, era giunto a promettere, il bacino minerario polacco di Sosnovice, ed una rettifica di frontiera nella Slesia prussiana. L’ex cancelliere tedesco, Bülow, tentò una mediazione estrema a queste condizioni, in collaborazione con l’ambasciatore austro-ungarico a Roma, Macchio: cessione della riva destra dell’Isonzo, nella parte abitata da italiani, Trieste città libera, Valona e disinteresse imperiale per tutta l’Albania, protezione degli interessi dei cittadini di lingua italiana nell’Impero, esame delle esigenze italiane su Gorizia e sulle isole Curzolari e garanzia tedesca, per la fedele esecuzione dell’accordo. Ma queste proposte arrivarono tardi e avrebbero richiesto ancora trattative. Il tempo era scaduto.
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