Foibe, parla lo storico: che vergogna la cerimonia a Basovizza
Pierlugi Romeo di Colloredo Mels è duro sull’impostazione politica dell’incontro tra Mattarella e Pahor: «Hanno messo sullo stesso piano le vittime dei titini e quattro terroristi che sarebbero stati fucilati ovunque». Ma ne ha anche per la destra: «Hanno fatto un uso retorico e non storico di quelle memorie. Ora parlano, ma quando erano al potere cos’hanno fatto di concreto?». Una ricostruzione affascinante, coraggiosa e completa dei difficili rapporti italo-slavi in un’intervista esclusiva
Sembra quasi un gioco delle parti: c’è stato chi ha applaudito lo storico incontro tra Sergio Mattarella e il presidente sloveno Boruth Pahor e lo ha fatto con toni da regime, senza darsi neppure la pena di approfondire.
E c’è stato chi, al contrario, ha criticato al limite del vituperio, pur di far polemica a costo zero.
Eppure, tra gli encomi, forse eccessivi, della grande stampa e i mal di pancia (altrettanto eccessivi e francamente un po’ ipocriti) di alcuni esponenti del centrodestra, è mancato il punto di vista decisivo, da cui sarebbe dovuta scaturire una lettura più equilibrata della vicenda: quello degli storici.
Al riguardo, Pierluigi Romeo di Colloredo Mels non ha peli sulla lingua: per lui l’impostazione politica dell’incontro, da molti definito storico, tra Mattarella e Pahor resta «una vergogna».
Ma il conte di Colloredo ne ha anche per la destra, quella già di potere – che ha avuto in mano l’Italia per i vent’anni a cavallo tra i ’90 e lo scorso decennio – e quella che le è sopravvissuta e continua a coltivare ambizioni di governo: «Non hanno combinato granché quando potevano, se non gesti simbolici, ora cosa pretendono?».
Sono affermazioni senz’altro dure, ma uno come lui può permettersele. E non ci si riferisce solo al peso di tre cognomi importanti, che evocano l’appartenenza alla cosiddetta nobiltà generosa, cioè autentica.
Ci si riferisce soprattutto allo spessore culturale di Colloredo, storico di lunghissimo corso, plurispecializzato nell’antichistica più hardcore (è egittologo ed etruscologo), poliglotta, giurista e profondo conoscitore della storia militare, a cui ha dedicato una a dir poco corposissima produzione bibliografica.
Una parte, neppure piccola, di questa produzione è dedicata alla delicatissima questione balcanica. L’ultimo volume di Colloredo sull’argomento è Confine orientale, uscito quest’anno per i tipi di Eclettica. Ma gli appassionati di storia conoscono benissimo il Colloredo-pensiero su questa spinosissima materia per averne avuto assaggi generosi sulle colonne di Storia in Rete, di cui è una delle firme di punta.
Dimenticavamo: tra una cosa e l’altra, Colloredo è anche un accademico serio e rigoroso, che ha molteplici legami col mondo universitario. È quanto basta per far capire che ha le spalle così larghe da mettere in secondo piano le polemiche ridicole di cui è oggetto chiunque si avventuri nella contemporaneistica e nella Public History senza essere rossi…
Allora, l’incontro tra Mattarella e Pahor è stato in parte una vergogna.
C’è sempre un aspetto vergognoso nelle verità di Stato, che sono verità politiche frutto di negoziazioni. È stata una vergogna la deposizione dei fiori al cippo di Basovizza, perché ha significato mettere sullo stesso piano gli infoibati, che non erano solo italiani, con gli esponenti di un’organizzazione terroristica.
Si riferisce alla Tigr?
Esatto. Ma non solo, anche all’Orjuna che era un’associazione di matrice fascistoide e agì di concerto con la Tigr. L’aspetto particolare, che accomunò queste due strutture, entrambe legate ai servizi segreti del Regno di Jugoslavia, fu il panslavismo acceso.
In altre parole, più che antifascisti, questi gruppi erano anti italiani.
Certo. E i quattro esponenti della Tigr (che è l’acronimo abbreviato di Revolucionarna organizacija Julijske Krajine Trst-Istra-Gorica-Reka, cioè Organizzazione rivoluzionaria per la Kraina Giulia Trieste-Istria-Gorizia-Fiume) furono fucilati al cippo di Basovizza per attività terroristiche contro lo Stato e i cittadini italiani, sulla base di una normativa che era fascista solo perché promulgata dall’Italia dell’epoca, ma che era presente in tutti i Paesi europei, Jugoslavia inclusa. In parole povere, i quattro dirigenti della Tigr sarebbero finiti davanti al plotone d’esecuzione dappertutto. L’antifascismo non era di sicuro un elemento ispiratore principale di questa organizzazione. Fu semmai un ripiego tattico in chiave anti italiana. Ripeto: il bersaglio di queste organizzazioni, sostenute e finanziate dall’intelligence di re Alessandro Karageorgevic, erano gli italiani e, più in generale, le popolazioni non slave, come dimostrano analoghe pressioni di tipo politico e terroristico operate nei confronti delle minoranze magiare, bulgare e albanesi.
Di sicuro la Jugoslavia dei Karageorgevic non era proprio un modello di democrazia liberale da opporre all’Italia fascista.
Assolutamente. A proposito di antifascismo: si pensi che i Tribunali speciali jugoslavi mandarono al plotone d’esecuzione ottanta comunisti. La sostanza di quella politica jugoslava, che nei nostri confronti era irredentista, come lo era la nostra nei loro, era l’annessionismo in chiave panslavista.
Allora non c’era alcuna differenza tra i comportamenti italiani e jugoslavi…
C’era eccome. Le modalità d’azione del nazionalismo jugoslavo – un nazionalismo di Stato che poggiava su basi decisamente più gracili e artificiali del nazionalismo italiano di cui era interprete il fascismo – erano più feroci e violente. E lo si sarebbe visto anche dopo, durante la Seconda Guerra Mondiale e nel titismo.
Il titismo, per rifarci a quanto da lei scritto nei suoi libri e nei suoi articoli, praticò un annessionismo piuttosto crudo, che aveva poco a che spartire con l’internazionalismo marxista e andava decisamente oltre l’asserita motivazione antifascista.
Tito fu panslavista come, prima di lui, lo erano i Karageorgevic. Lui riuscì a realizzare l’irredentismo vagheggiato dal Tigr con metodi di una brutalità inaudita, che superava la logica di ritorsione asserita dalla propaganda ufficiale. Di più: portò lo jugoslavismo alle estreme conseguenze, fino al punto di reprimere nel sangue ogni forma di dissenso da qualunque parte provenisse. In questo caso parlano i numeri.
Che sono enormi…
Lo studioso statunitense Rudolph Rummel nel suo Stati Assassini attribuisce all’azione diretta e indiretta dei titini oltre un milione di morti. Gli italiani infoibati nelle zone dell’ex confine orientale, in questa enorme carneficina, sono una minoranza piuttosto esigua: le cifre oscillano tra i 7mila e i 23mila morti e il numero più realistico sarebbe attorno ai 10mila. Ma si può dire che non ci sia zona dell’ex Jugoslavia in cui il titismo non abbia lasciato una scia indelebile di sangue.
Insomma, l’antifascismo non giustificherebbe un accanimento così forte, che tra l’altro non fu riservato ai soli italiani…
Sull’antifascismo titino ci sarebbe tanto da dire. Io mi soffermerei su un dato concreto: quando la Jugoslavia entrò in guerra, il Partito comunista jugoslavo restò in silenzio, perché vigeva il Patto Ribetropp-Molotov. Tito e i suoi si mobilitarono solo in seguito all’operazione Barbarossa, cioè quando la Germania invase l’Urss. Il che la dice lunga anche sul patriottismo titino.
Eppure il mito della resistenza ha coperto a lungo (e continua in buona parte tuttora a coprire) le gravi responsabilità del regime titino, anche a dispetto del crollo della ex Jugoslavia.
Per quel che riguarda la ex Jugoslavia, anche il ruolo dei comunisti nella resistenza andrebbe ridimensionato. Innanzitutto, per il ritardo con cui Tito e i suoi entrarono in azione rispetto all’invasione del loro Paese. Poi per una questione di legittimità politica: l’unica forza resistenziale legittima è stata l’Esercito jugoslavo in Patria.
Cioè i cetnici…
I cetnici di Draza Mihailovic erano i rappresentati del governo legittimo del loro Paese e tali furono riconosciuti dagli Alleati. Insomma, furono parte belligerante in piena regola. Lo stesso non si può del tutto dire dei titini. Certo, il teatro bellico balcanico era abnorme, sia per la ferocia della guerra civile che esplose in seguito all’occupazione delle forze dell’Asse – italo-tedesche in prima battuta, ma anche ungheresi e bulgare – sia per l’intricata rete di relazioni politiche, tutte conflittuali, di quel territorio. Oltre agli occupanti, si possono contare altri sei gruppi belligeranti: i cetnici e i titini, di cui abbiamo parlato finora, gli ustascia croati e i domobranci sloveni (che erano gruppi nazionalisti filofascisti e filonazisti di ispirazione antijugoslava), le milizie di ispirazione religiosa, in particolare i musulmani dei sangiaccati, e gli albanesi. Anche queste due ultime fazioni erano vicine all’Asse. Le rivalità e le inimicizie tra i gruppi nazionali generarono una guerra sanguinosissima e sporca, come tutti i conflitti asimmetrici, che creò non poche difficoltà alle forze d’occupazione, a partire dall’esercito italiano.
Tra i motivi polemici della propaganda jugoslava spiccano le accuse ai comportamenti brutali del Regio Esercito…
Al riguardo occorre sfatare due miti. Il primo è quello dell’italiano comunque buono e del tedesco comunque cattivo. Il nostro esercito operò in maniera durissima e si lasciò andare ad eccessi. Si pensi che i militari italiani provocarono più morti tra la popolazione civile di quanti non ne avessero provocati i tedeschi tra i civili italiani. Certo, le nostre brutalità e i nostri eccessi furono minori rispetto a quelli delle altre parti e, finché fu possibile, ci attenemmo alle norme del Diritto internazionale bellico. Inoltre, senza con questo voler sminuire i crimini di guerra italiani, i rastrellamenti e le esecuzioni sommarie furono effettuati a titolo di ritorsione, rappresaglia e, più in generale, come operazioni antiguerriglia.
Questo in tempo di guerra. E prima?
Il nazionalismo fascista fu senz’altro più tollerante e meno aggressivo di quello jugoslavo. Il fascismo mirava a italianizzare le minoranze etniche e linguistiche. E in ciò non faceva eccezione alla politica degli altri Paesi europei, anche democratici: si pensi ai comportamenti della Francia nei confronti delle minoranze italiane e tedesche, della Polonia sempre nei confronti dei tedeschi e della Spagna, anche prefranchista, nei riguardi dei baschi. Il comportamento italiano fu più vistoso perché si svolgeva nel contesto di uno sistema autoritario. Ma l’Italia non attuò mai pratiche terroristiche nei confronti delle proprie minoranze, soprattutto quelle slavofone. Il che non si può dire della Jugoslavia. Occorre aggiungere, inoltre, che la politica mussoliniana nei Balcani fu molto pragmatica e ambivalente. Occorre ricordare che, dopo l’assassinio di re Alessandro ad opera di un terrorista bulgaro legato agli ustascia, l’Italia firmò un trattato di amicizia con la Jugoslavia e che lo stesso Mussolini si era dichiarato contrario all’annessione di tutta la Dalmazia. L’atteggiamento jugoslavo fu decisamente più aggressivo e, nelle sue linee di fondo, corrispondeva alle dottrine geopolitiche elaborate e sostenute a Belgrado. Queste dottrine furono praticate anche da Tito senza soluzione di continuità, a dispetto dell’orientamento socialista.
In pratica, Tito fu solo molto fortunato perché l’aver vinto la guerra gli evitò di rispondere delle sue pratiche criminali?
Tito non vinse alcuna guerra. La vinsero gli Alleati e l’Unione Sovietica. Belgrado fu liberata dall’Armata Rossa, non dai partigiani, e l’Asse fu piegata dagli angloamericani. Tito si trovò sul tavolo dei vincitori perché Churchill, col suo spregiudicato pragmatismo, lo ritenne più efficiente e affidabile dell’ondivago Mihailovic.
Quindi l’antifascismo è solo un motivo propagandistico?
Soprattutto propagandistico. Si pensi a un dato: nella lista di presunti criminali di guerra, di cui il regime titino aveva chiesto la consegna, i fascisti erano solo otto. Parliamo di una lista di ottocento persone, soprattutto militari, anche ufficiali, e carabinieri. I lettori possono trarre da sé le conclusioni…
Torniamo al presente. La cerimonia del 13 luglio ha avuto un esito dispari: è vero che la Slovenia ha finalmente riconosciuto in via ufficiale la realtà delle foibe, ma è altrettanto vero che l’Italia ha fatto delle concessioni su due falsi storici, cioè l’esecuzione dei vertici del Tigr e la restituzione del Narodni Dom. Come mai questo atteggiamento?
Sa più di diplomazia che di storia. Con tutta probabilità, si è voluto che Pahor portasse qualche risultato politico a casa. Ma una cosa sono le esigenze della politica, un’altra quelle della storia, che si basa sui fatti e sui documenti. E fatti e documenti dicono ben altro.
Sempre per restare al presente: fino a tempi recenti la tragedia dei profughi giuliano-dalmati è stata una memoria di nicchia, custodita gelosamente dalla destra missina, che tuttavia non è stata conseguente quando si è evoluta in forza di governo.
La destra neofascista ha fatto un uso della memoria più retorico che storico. Concordo anche sul fatto che la destra postfascista di An ha fatto poco, una volta arrivata al governo. Certo, il Giorno del ricordo e qualche altra celebrazione sono stati importanti. Ma non sono seguiti loro gesti concreti nei confronti delle comunità dei profughi né nei confronti dei governi dei Paesi ex Jugoslavi. E, soprattutto, resta ancora la percezione della tragedia dell’ex confine orientale come di una memoria di parte, cioè in buona misura ancora legata all’immaginario neofascista.
E ciò alimenta le polemiche persistenti di una parte della sinistra. Si pensi all’Anpi o a certi movimenti neocomunisti. C’è un modo di sfuggire a questa trappola della memoria?
La storicizzazione. Cioè una ricostruzione rigorosa e spassionata di quegli avvenimenti. Occorre ricordare a certa destra, che cerca tuttora di monopolizzare la memoria dell’ex confine orientale per fini elettorali e propagandistici, che l’Italia si macchiò comunque di crimini di guerra e contribuì ad alimentare una terribile spirale d’odio. Allo stesso modo, è doveroso ricordare che il regime titino commise atrocità molto simili a quelle per cui si celebrò il Processo di Norimberga. Le principali vittime di questo crimine non furono gli italiani, ma gli stessi cittadini jugoslavi. La parola dovrebbe passare definitivamente agli storici. Quando cessano le versioni di parte e gli storici fanno per davvero il loro lavoro, le passioni cedono il posto alla riflessione. Sarebbe il primo passo per la costruzione di una memoria condivisa. Ma questo lavoro non spetta solo all’Italia, perché tutte le parti in causa, quindi anche i Paesi ex jugoslavi, devono assumersi le proprie responsabilità.
(a cura di Saverio Paletta)
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Gentile signore Pierluigi Romeo di Colloredo Mels, dopo aver letto il vostro articolo ho una domanda da porvi. Lei ci crede veramente alle stronzate che dice?
Egregio De Vasto,
il professor Colloredo può persino – paradossalmente! – non credere alle stronzate riportate nell’articolo che dimostra di sgradire. Tuttavia, in queste stronzate crede l’autore dell’articolo, che La invita a essere più educato.
L’ipotetico antifascismo non autorizza la cafoneria di cui fa sfoggio.
Un cordiale saluto,
Saverio Paletta
Che poi i reali o presunti criminali di guerra in Jugoslavia (che venivano richiesti su indicazione dei comandanti di brigate partigiane, si immagini con quale attendibilità: non a caso sono inclusi oltre ai RRCC soprattutto gli ufficiali dei reparti più combattivi: Granatieri di Sardegna, Divisioni Alpine, Battaglioni Bersaglieri, Divisione Sassari) siano circa ottocento mi pare di averlo detto apertis verbis: “Si pensi a un dato: nella lista di presunti criminali di guerra, di cui il regime titino aveva chiesto la consegna, i fascisti erano solo otto. Parliamo di una lista di ottocento persone, soprattutto militari, anche ufficiali, e carabinieri”.
Che poi i fascisti, quelli con la camicia nera ed i fascetti al posto delle stellette, siano solo otto lo dicono le richieste della FPJ conservate nell’Archivio dell’USSME.
In genere intervengo solo su fatti che ho studiato direttamente sulle fonti. Il problema del confine orientale non rientra tra questi. Mi colpisce però che Colloredo riferisca di soli otto fascisti richiesti dal governo jugoslavo quali criminali di guerra mentre nella “Relazione di minoranza” della “Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti” del 24 gennaio 2006, a p. 93, il numero dei criminali di guerra italiani richiesti dalla Jugoslavia e inclusi nella lista della Commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra è indicato in 729, ai quali si aggiungono altri 27 nominativi “richiesti al Ministero Affari Esteri con note verbali”. Chiarire questo punto non mi pare secondario.
Con fascisti intendo appartenenti alla Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale, non ai membri del Regio Esercito (circa ottocento, in maggioranza Carabinieri,) richiesti quali criminali di guerra dal regime comunista di Tito. Ovviamente né il Regio Esercito né i Reali Carabinieri erano fascisti se non nella propaganda d’accatto della sinistra italiana e non.
Senza voler entrare nella questione dell’attendibilità o meno delle accuse formulate nel dopoguerra contro membri delle FF.AA. italiane dai governi di Jugoslavia, Albania, Francia, Grecia ed Unione Sovietica, richieste spesso assurde e cui non si ritenne dar conto, giova ripetere qui i nominativi di appartenenti alla Milizia di cui venne chiesta la consegna da parte di governi stranieri che compaiono nel fondo H8, Crimini di guerra, dell’Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Rispetto ai 1.500 nomi presenti nelle varie liste, si vedrà come si tratti di soli ventiquattro nominativi; persino nell’elenco di (presunti) criminali di guerra compilati dal governo comunista jugoslavo compaiono solamente otto nominativi; nove in quella del governo albanese e infine sei in quella del governo francese, tutti di appartenenti all’88a Legione CC.NN. d’assalto Alfredo Cappellini. Nessun appartenente alla Milizia venne richiesto dai governi greco e sovietico.
Ci sembra la migliore smentita alle illazioni di certa storiografia antifascista circa la ferocia delle Camicie Nere!
I nominativi provengono dall’Archivio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, Fondo H8 (crimini di guerra) e Fondo Messe, Stanza segreta I, Archivio della Commissione d’Inchiesta per i criminali di guerra italiani secondo alcuni Stati esteri .
Jugoslavia.
Console Giovanni Fiordiponti (comandante la 137a Legione Monte Majella),
Console Ivan Scalchi (comandante il Gruppo Battaglioni CC.NN. Squadristi Dalmazia)
Primo Seniore Armando Rocchi,
Capomanipolo medico Antonio Runco (108a Legione CC.NN. Stamira),
Primo Seniore Corrado Armeni (comandante il LVIII battaglione CC.NN. [Trieste],
Seniore Agostino Fumo (comandante il XXXIII battaglione CC.NN. [Imperia]),
Seniore Giovanni Fracassi (comandante il CXXXVII battaglione CC.NN. [Lanciano]),
Centurione ? Ferro (Milizia Confinaria di Fiume).
Albania.
Luogotenente Generale Alessandro Biscaccianti (Comandante la Milizia Fascista Albanese dal 1941 al 1942),
Console Adolfo Pifferi (comandante della 1a Legione della Milizia Albanese),
Console Carlo Cavagnini (comandante della 3ª Legione Milizia Fascista Albanese nel 1943)
Console Calogero Spatazza (indicato come Calloggio Patazza, comandante della 1a Legione della Milizia Fascista Albanese dal 1942)
Primo Seniore Vincenzo Stramenga (comandante della 4ª Legione della Milizia Fascista Albaese) ,
Primo Seniore Vinicio Fachini (comandante della coorte territoriale della Milizia Fascista Albanese a Durazzo nel luglio 1941, capo del reparto Stato Maggiore della Milizia Albanese nel novembre dello stesso anno, aiutante maggiore in 1ª della 1ª Legione),
Seniore Andreano Zagelmi (dal novembre 1942 al gennaio 1943, capo ufficio bande volontari a Durazzo, poi comandante del XIII Battaglione volontari milizie albanesi con sede a Tirana, infine Aiutante maggiore in prima della 3ª Legione della Milizia Albanese),
Seniore Federico Spaziani (dal novembre 1940, comandante della Coorte di Elbasan della Milizia Fascista Albanese, poi comandante interinale della 2a Legione della Milizia Fascista Albanese di Corcia nel 1942),
Centurione Scipione Perdicaro (comandante del V battaglione CC.NN. d’Albania poi del II fino al settembre 1943),
Francia.
Primo Seniore Bruno Lippi (comandante il LXXXVIII battaglione dell’88ª Legione CC.NN. Alfredo Cappellini) ,
Centurione Pier Luigi Mazzantini (comandante la 2ª compagnia del LXXXVIII Battaglione CC.NN.),
Centurione Aldo Marangoni (comandante la 3ª compagnia del LXXXVIII Battaglione CC.NN.),
Centurione Attilio Valentini ,
Capomanipolo Giuseppe Ciarpaglini ,
Capomanipolo Michele De Anna , capomanipolo Alfredo Ricci ,
Capomanipolo Leandro Vanni (tutti inquadrati nel XCVI Battaglione [Arezzo] dell’88ª Legione CC.NN della Divisione Friuli. in Corsica durante l’occupazione italiana).
Nessun membro della M.V.S.N. venne accusato di crimini di guerra dai governi del regno di Grecia e dell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche.
Egregio professor Marinelli,
credo che Colloredo sul punto sia stato inequivocabile: ha detto che i fascisti sono solo otto nella lista dei presunti criminali di criminali di guerra di cui la Jugoslavia aveva chiesto la consegna.
Per fascisti si deve intendere soggetti politicamente attivi (ad esempio, perché appartenenti alla Milizia) e non semplici tesserati al Pnf o al Pfr (l’incarnazione “repubblichina” del fascismo).
Il motivo di questa distinzione è piuttosto banale: i funzionari civili della pa e molti militari, di leva e volontari, e molti altri professionisti (ad esempio, il personale medico) potevano benissimo essere iscritti al Pnf – cosa non infrequente in un sistema autoritario in cui il possesso della tessera del partito unico era la precondizione essenziale per accedere a determinati ruoli e carriere – ma ciò non faceva di loro ipso facto dei fascisti.
Il fatto che molti soggetti di cui si chiedeva la consegna fossero militari di carriera ed esponenti dell’Arma, per i quali l’appartenenza a determinati corpi e ranghi sanciva l’incompatibilità con l’appartenenza politica formale, dovrebbe tagliare la testa al toro.
In pratica, le autorità jugoslave chiesero la consegna di cittadini italiani a prescindere che fossero o meno fascisti ma sulla base di asseriti crimini di guerra.
Mi pare che questo dato contribuisca a ridimensionare il peso della lettura in chiave antifascista dei rapporti italo-slavi.
A mio sommesso parere, il messaggio fondamentale dell’intervista da Lei commentata è che questi rapporti (politici, economici, militari) siano stati, con i loro alti e bassi e con i loro drammi, innanzitutto rapporti tra i popoli, le forme statali in cui vivevano e le forze politiche a cui, in un modo o nell’altro, questi popoli avevano dato il loro consenso.
La conflittualità (più da parte slava nei confronti degli italiani che viceversa) resta un dato storico che trascende la presenza del fascismo (e, specularmente, della monarchia dei Karageorgevic e del regime di Tito).
L’invito di Colloredo alla ricerca di una memoria condivisa attraverso la storicizzazione è conseguente a livello logico e condivisibile a livello etico.
La storia non ha bisogno (o non ne ha più) di gendarmi arcigni ma di ricercatori aperti, preparati, spregiudicati e pignoli.
Grazie come sempre per l’attenzione,
Saverio Paletta