I padri del comunismo? Che razzisti!
Spartaco Pupo, il direttore del centro studi Oikos traduce vari saggi, editi finora solo nel mondo anglosassone, di Marx ed Engels e rivela: gli evangelisti del socialismo scientifico erano colonialisti e assertori convinti della supremazia bianca. Eppure le loro statue non sono neppure state sfiorate dalla furia iconoclasta del movimento Black Lives Matter, che attira tante simpatie in certa sinistra…
Chi la fa l’aspetti, giusto per esordire con un luogo comune. Ed ecco che nel dibattito scatenato dai moti iconoclasti di Black Lives Matter è entrato a gamba tesa uno studioso meridionale: Spartaco Pupo, professore associato di Storia delle dottrine politiche all’Università della Calabria.
Pupo ha pubblicato sul sito di Oikos-Centro studi sul Noi politico, di cui è direttore scientifico, un articolo densissimo, ma semplice e lineare, che ha destato un po’ di scandalo in parte della comunità scientifica, che ha affrontato il dibattito iconoclasta con non pochi imbarazzi e reticenze: Ma guardate che Marx ed Engels erano i più razzisti (clicca qui per leggere l’articolo).
Il professore calabrese ha preso il toro per le corna e ha costretto (o almeno ci ha provato…) una certa intellighenzia a fare i conti con un lato oscuro della cultura progressista. Allo scopo, ha scovato un bel popò di saggi e articoli dei due padri del comunismo o a essi dedicati e ne ha sintetizzato i contenuti, per renderli disponibili al pubblico italiano.
Intendiamoci, a livello scientifico la scoperta è minima e Pupo lo dice a chiare lettere:
«L’elenco delle indelebili tracce di razzismo marxiano è stato autorevolmente redatto e discusso in ricerche approfondite, datate ma ancora insuperate […] peraltro mai tradotte in lingua italiana, per varie ragioni, in gran parte legate alla egemonia comunista, esercitata nel mondo editoriale e culturale e alle conseguenti strategie inquisitorie e censorie dei suoi rappresentanti ufficiali».
La letteratura utilizzata dal prof è composta da una serie di saggi, quasi tutti di studiosi di area anglosassone e pubblicati tra gli anni ’20 e gli anni ’70 dello scorso secolo. Il quadro che ne esce sui due padri del socialismo scientifico è a dir poco a tinte fosche: Marx ed Engels risultano colonialisti, razzisti e strenui sostenitori dei mito della supremazia bianca fino a sconfinare nel pangermanesimo più becero.
Gli Usa fanno bottino a danno del Messico nella loro prima guerra imperialista? Secondo Marx è cosa buona e giusta, perché i territori annessi dagli yankees potranno prosperare grazie al piglio energico dei nordamericani, ben diverso dall’attitudine pigra e pasticciona dei peones messicani.
La Francia si pappa l’Algeria in seguito a una guerra coloniale ferocissima? Secondo Engels è un bene, perché finalmente i nordafricani, di solito dediti alla pirateria, potranno trovare modi più civili di vivere. E, sempre a proposito di supremazia bianca (o quantomeno europea), il filosofo tedesco arriva a chiudere un occhio e mezzo sulle brutalità delle truppe francesi, comunque preferibile al lifestyle dei beduini.
C’è di più: lo stesso Engels interviene in maniera massiccia sul panslavismo e punta il dito contro boemi, moravi e slavi del Sud, rei di non volersi far fagocizzare dall’imperialismo tedesco (ed è interessante, al riguardo, la definizione engelsiana dei tedeschi come «stirpe ariana assai dotata e in pieno sviluppo di vita»).
Oppure vogliamo parlare del plauso, sempre di Engels, al colonialismo italiano nel Corno d’Africa?
Marx, invece dà il meglio (cioè il peggio) di sé con un elogio del colonialismo britannico in India. Inutile dire che anche in questo caso fa capolino lo schema razziale: i conquistatori britannici, secondo il filosofo tedesco, sono quel che ci vuole per civilizzare gli indiani, i pigri, immutabili e chiusi indiani.
Alla luce di questi esempi, spiegati con un pignolissimo uso delle fonti, Pupo fa notare un paradosso di non poco conto: possibile che la furia dei neoprotestatari abbia risparmiato le statue dei due padri del comunismo, quando per molto meno è stata sfregiata la statua di David Hume?
E ancora: possibile che, nonostante tutti questi esempi non bellissimi, il marxismo sia ancora visto come la dottrina dell’emancipazione dei popoli, soprattutto quelli ex coloniali, per eccellenza?
L’articolo di Pupo ha fatto il botto e ha suscitato qualche polemica, soprattutto dopo che Il Giornale lo ha pubblicato in tre puntate. È il segno che lo studioso calabrese è riuscito a toccare un nervo scoperto: la mancata storicizzazione del marxismo.
Infatti, se si desse uno sguardo più sereno a tutta la vicenda, ci si dovrebbe meravigliare di come il razzismo di Marx ed Engels non sia uscito fuori finora e di come, anziché diventare oggetto di polemiche, non sia stato oggetto di una riflessione chiara e pacata: quella che ci si aspetterebbe dalla comunità degli studiosi, insomma.
Già: cosa è il razzismo biologico, anche nelle sue espressioni più becere legate al nazismo e a certa letteratura colonialista anglosassone, se non un prodotto di quel materialismo che ha trovato la più compiuta e insuperata teorizzazione nei due filosofi?
Sia per Marx sia per Engels la razza è un fattore economico. Logico, quindi, che nella loro visione dialettica, i popoli si dispongano su una scala di valore: sono di serie a quelli più prossimi alla rivoluzione perché dotati di coscienza di classe, di serie b e a scendere tutti gli altri.
E allora, com’è avvenuto che il marxismo sia diventato una dottrina della liberazione?
Una risposta possibile sta in una parolaccia che tanta intellighenzia radical ha cercato di rimuovere: geopolitica.
Già, il problema del colonialismo si pone, a partire da Lenin, nelle elaborazioni dei teorici sovietici e raggiunge l’apice nel secondo dopoguerra, proprio durante la decolonizzazione.
Intendiamoci: non che il mondo socialista, tutt’altro che monolitico e compatto, non traboccasse di rigurgiti anticoloniali quando il colonialismo era lontano dal tramontare (si pensi alle proteste italiane, in cui si distinsero Pietro Nenni e il giovane Mussolini, contro la conquista della Libia…). Ma solo col dopoguerra questi impulsi si sono tradotti in una dottrina sistematica, che ha costituito l’apparato propagandistico con cui l’Unione Sovietica e la Cina hanno tentato di occupare gli spazi lasciati liberi dal ritiro delle potenze europee in concorrenza con gli Stati Uniti.
E che anche queste dottrine fossero un imperialismo travestito non ci piove: non è stato un caso che tutti i leader socialisti siano stati appoggiati, indottrinati e sostenuti, anche a livello diplomatico dalle potenze leader del mondo comunista.
Era, in pratica, la variante del Grande Gioco durante la Guerra Fredda.
La rivoluzione attecchì in Russia perché i tedeschi non erano stati in grado di farla. Ed è fatale che in questa dinamica il marxismo si sia saldato col panslavismo, altra dottrina imperialista, con lo stesso schema con cui si sarebbe invece dovuto saldare, secondo i desiderata di Engels, col pangermanesimo.
Al riguardo, occorrerebbe riprendere delle interessantissime riflessioni del compianto Luciano Pellicani sulle posture criptonaziste assunte dal marxismo in Asia, soprattutto nelle zone dell’ex Indocina. Ma questo discorso merita ben altri approfondimenti.
Ma cosa resta di tutto questo popò di dottrine e di propaganda una volta finito l’impero sovietico? Per descriverlo, le considerazioni di Kundera sul kitsch politico sono davvero troppo poco. Lo spettacolo è simile a quello offerto da certe bancarelle dei mercatini rionali dove fanno spesso capolino sottocosto dei capi firmati che un tempo costavano oro.
Non si è usata a caso questa metafora: si pensi ai cestoni di libri vintage e remainders in cui fanno bella mostra di sé le opere sacre del marxismo, ridotte a paccottiglia proprio a causa dell’omessa storicizzazione.
La sinistra postcomunista, infatti, ha trovato più conveniente la rimozione del vecchio apparato ideologico, che comunque si è rivelato utile per consentire a una certa intellighenzia di mantenere quel che restava della vecchia egemonia.
E forse proprio per questo l’articolone coraggioso di Pupo ha fatto venire più di un mal di pancia.
Lo ha procurato soprattutto a quelle élite meridionali che continuano a inchiodare il Sud all’arretratezza culturale proprio perché continuano a proporre i vecchi parametri gramsciani (il meridionalismo della sfiga, per dirla in parole povere).
Ci sarebbe ancora tanto da dire su questo e altri argomenti e ci si propone di farlo a breve.
Al momento, ci si limita a notare una cosa: è senz’altro giusta la protesta di Black Lives Matter ma ne sono inaccettabili certe derive ideologiche basate sulla vecchia paccottiglia terzomondista.
Le rivoluzioni e le rivendicazioni sono sempre stati dei fatti moderni, che si alimentano del disagio di un determinato modello sociale. Di più: la rivoluzione o è moderna o non è tale. Di sicuro il peggior modo di condurla è prendere le armi dal rigattiere.
Per saperne di più:
Vai al sito web del centro studi Oikos
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È ributtante testare come tanta gente che non ha la più pallida idea del difficile e complesso sviluppo della teoria prodotta da Marx, con la più sfacciata furbastreria e disonestà, manipolando i preconcetti diffusi, i quali per altro costituiscono tutta la loro conoscenza sul tema, promuovano altri furbastri come loro per per giungere a conclusioni forti e precipitose su ciò di cui dimostrano di non capire una ‘h’. Occupatevi piuttosto di letteratura, di cronaca o di altro tipo di cose mondane, lasciate perdere tutto il resto, di cui non siete competenti.
Egregio Savio,
Mi guardo bene dal contestare il Suo – legittimo – diritto a dissentire dall’articolo che ha commentato: anche io sgradisco molta roba che leggo e, quando vale la pena, polemizzo senza mezzi termini, anche con asprezza.
Ma lo faccio in modo un po’ diverso e – se permette – più civile dal Suo: argomento con dati e ci metto la faccia. Proprio quel che non fa Lei, insomma.
È troppo chiederle di farci capire i motivi del Suo dissenso? E, soprattutto, è eccessivo chiederle di farci conoscere il Suo nome? Si chiama coraggio delle proprie opinioni e azioni. Ma, va da sé, non gliene facciamo una colpa se ne è sprovvisto.
Cordialmente,
Saverio Paletta