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I rom e la resistenza: una storia nascosta contro il pregiudizio

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Tre giovani studiosi  calabresi della Fondazione romanì Italia rievocano le vicende della brigata partigiana Leoni di Breda Solini, composta interamente da sinti, e la storia di Amilcare Debar, che combatté assieme a Pertini e divenne il primo protagonista della lotta dei rom per i diritti civili. Ma i pregiudizi, puntualmente riaccesi da episodi non belli delle cronache, sono duri a morire: sono vecchi di mille e passa anni…

La forza dei pregiudizi, motivati o meno che siano, fa scordare la storia. Quella dei rom, come li conosciamo noi, compie un millennio proprio quest’anno: troppo lunga per setacciarla come si deve.

Ci fermiamo alla storia più recente, come ce la raccontano Bina Gargiullo, Federica Cordasco e Fiore Manzo, tre studiosi cosentini della Fondazione romanì Italia.

I tre, assieme a Luigi Bevilacqua, delegato calabrese della Fri e attivista storico della comunità rom cosentina, hanno ricostruito una vicenda in buona parte rimossa anche dalla cultura di sinistra: i rom, perseguitati in maniera criminale in tutta Europa, parteciparono in maniera attiva alla resistenza.

L’Italia, in questo genocidio, al pari che nella Shoah, ebbe un ruolo particolare. Da un lato fu subalterna, perché i veri e propri rastrellamenti, anche dei rom, iniziarono solo dopo l’8 settembre, coi tedeschi padroni del campo in varie parti del territorio e le autorità nazionali costrette nel ruolo di mere esecutrici di ordini che partivano da Berlino.

Dall’altro lato, l’italica arte di arrangiarsi e di aggirare gli ostacoli ebbe il suo effetto benefico soprattutto al Sud e particolarmente in Calabria, dove per gli ebrei ci fu Ferramonti e i rom non furono quasi toccati. «Ormai erano stanziali in Calabria», spiega Manzo con tanto di documenti.

Infatti, per quel che riguarda Cosenza, la comunità rom coesisteva coi cosentini a via Panebianco e rastrellare gli zingari fu impossibile.

Altrove le cose non andarono così lisce. «Dopo l’8 settembre vari rom riuscirono a fuggire ai carabinieri e ai militari che avevano ricevuto l’ordine di “concentrarli”», chiarisce Bina Gargiullo. Aderire alla resistenza, per loro, fu quasi un passaggio obbligato. Infatti, negli archivi c’è più di una traccia dei Leoni di Breda Solini, un battaglione costituito di soli sinti italiani fuggiti dal campo di concentramento di Prignano sulla Secchia, nel Modenese.

Tra i partigiani rom (usiamo i termini in maniera promiscua, per non addentrarci troppo nella complicata babele dei nomi che questa popolazione dà a sé stessa) figurano i cugini Giuseppe e Walter Catter, noti, rispettivamente, coi nomi di battaglia Tarzan e Vampa, caduti in combattimento.

Molto più nota, anche agli appassionati delle cronache più recenti, è la vicenda di Amilcare Debar, arruolatosi a 17 anni, col nome di battaglia di Corsaro Nero, nella 48esima brigata Garibaldi, dove combatté assieme a Sandro Pertini, che lo riceverà al Quirinale durante il suo mandato di Presidente della Repubblica.

Depar, cresciuto in un orfanotrofio assieme alla sorella, scoprì la sua origine rom molti anni dopo la guerra, quando, da poliziotto, fermò alcune persone a un posto di blocco e, controllandone i documenti, si accorse che erano parenti suoi e che erano rom. Da allora, Depar divenne un attivista molto conosciuto per i diritti dei rom, che perorò anche all’Onu.

Storie particolari, che si perdono quasi in due storie diverse: quella del popolo rom, che nel 1018 subì la deportazione su iniziativa del celebre condottiero afghano Mahmud di Ghazna e la conseguente conversione coatta all’Islam. Tra le conseguenze di questo trauma storico ci fu la prima storpiatura del nome: dall’originario dom all’attuale rom.

Fu la prima di tante trasformazioni: diventati nomadi loro malgrado, i rom, già dom, passarono in Grecia, dove finirono sotto l’ala sicuramente più benevola dei bizantini, che li chiamarono athinganos (che significa intoccabile, inavvicinabile ma, va detto, non nel senso quasi dispregiativo con cui gli indù definivano paria i fuori casta) e li assimilarono agli atziganoi, che erano i membri di un gruppo dedito alle arti magiche. Non ci vuole un mago (anzi, si perdoni la battuta, la zingara) per capire che da questi termini sono derivati zingaro e gitano, appellativi che i rom odierni che hanno raggiunto una certa consapevolezza di sé rifiutano.

«In tanti cerchiamo di integrarci e i successi individuali sono tanti, ma purtroppo la strada per battere i pregiudizi è ancora lunga», lamenta Manzo. Evidentemente, per loro la resistenza non è ancora finita.

 

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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