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Judas Priest, e sai cosa ascolti

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La band britannica torna con Firepower, diciottesimo album in studio, in cui si conferma “mamma” del metal

Ad ascoltare Firepower (Epic, 2018), il loro diciottesimo album in studio in quarantanove anni di attività, sorge spontanea una domanda: perché i Judas Priest non si ritirano e, come diceva qualcuno, non fanno largo ai giovani?

E non perché Firepower sia un brutto album, anzi. A volergli dare un voto, verrebbe la tentazione di attribuirgli il massimo, perché l’ultima incarnazione della band, quella che conosciamo da Reedemer of Souls (2014), picchia alla grande.

Ritchie Faulkner, il giovane chitarrista che ha preso il posto di K. K. Downing, si è integrato alla grande col resto della formazione, che invece è quella che conosciamo dai tempi dai primi, ormai lontani, anni ’90, quando, abbandonate le suggestioni elettropop di Turbo (1986), il gruppo britannico decise di darci dentro col metal, anche estremo.

Resta in piedi la domanda: perché non si ritirano? Il limite, se vogliamo definirlo così, di Firepower consiste nel suo essere troppo classico, più o meno come il predecessore. Troppo Judas Priest. Detto altrimenti: quello che dovevano dire, i Priest lo hanno detto fino al bello e sperimentale Nostradamus (2008).

La prima risposta è banale, ma in fondo veritiera: la scena metal non esiste quasi più e le novità non sono in grado di competere, neppure dal semplice punto di vista tecnico-musicale, con tutto quel che è stato prodotto nella golden age del genere, compresa grosso modo tra la seconda metà degli anni ’70 e la seconda metà dei ’90. E se le novità vere stanno ormai in sottogeneri (il doom, il black e lo stoner) che oltrepassano i canoni, allora godiamoci i classici. Come dire, meglio una bella gita in un museo ben allestito.

Certo, sanno non poco di speculazione alcune notizie uscite a ridosso di quest’album: la morte per polmonite dello storico produttore Chris Tsangarides, quella dell’ex batterista Dave Holland e, peggio ancora, la rivelazione della malattia, il morbo di Parkinson, che affligge da circa dieci anni Glen Tipton, l’altro storico chitarrista della band. Alla quale restano, a questo punto, solo due membri fondatori: Rob Halford, la cui voce (e purtroppo si sente, a dispetto degli effetti di studio) è l’ombra del passato, e il bassista Ian Hill.

Detto questo, l’album in sé merita più di un ascolto, perché potrebbe essere davvero una delle ultime testimonianze di un genere, l’heavy metal senza aggettivazioni di alcun genere, ormai giunto al capolinea. Una testimonianza più che valida.

Prendiamo, ad esempio, Firepower, che dà il nome all’album e lo apre: è un bel brano potente e tirato, in cui il drumming martellante e precisissimo di Scott Travis regge la sequenza di riff micidiali snocciolati dalle chitarre di Tipton e Faulkner. E, c’è da dire, neppure Halford si risparmia: anzi, dà fondo alla voce residua (che non è comunque poca) rimastagli. Da manuale anche l’intermezzo strumentale arioso che precede gli assoli.

Stesso discorso per l’epica Lighnting Strikes, primo singolo tratto dal disco: rimica pesante, melodie possenti, coro trascinante e assoli ben calibrati. La cadenzata Evil Never Dies è una bella lezione di doom metal con strizzatine di occhio al death, altre formule con cui i britannici si sono misurati a fondo a partire dallo scorso decennio. Da copione anche la melodica e più americaneggiante Never The Heroes, col suo mix di tematiche pacifiste e incedere marziale. Di nuovo un po’ di doom, appena stemperato dalla versatilità ritmica della band in Necromancer, mentre la combinazione di riff serrati e intermezzo lento di Children of The Sun non aggiunge una virgola a quello che i Priest fanno bene da sempre. Anche Guardians, un breve intermezzo strumentale di pianoforte e chitarra, è tipico della band. E neppure la varia e dinamica Rising from Ruins, la più bella dell’album, brilla per originalità.

Qualcosina in più, sotto quest’ultimo aspetto, la dà l’inquietante Spectre, in cui il gruppo, grazie anche a intelligenti inserzioni elettroniche, ritrova un po’ dello spirito dark degli anni ’70. Seguono, il metal tirato e speed di Flame Thrower, gli assaggi epic metal di Traitor’s Gate, i cori radiofonici (nel senso di Virgin Radio, ci mancherebbe…) di No Surrender e la sabbathiana Lone Wolf. Chiude l’album la lenta ed evocativa Sea of Red.

Tutto da copione, sia per i fan storici del gruppo, sia per gli appassionati del genere: suoni forti e brillanti, grazie anche alla produzione di due maghi della consolle del calibro di Andy Sneap e Tom Allom, brani equilibrati, non troppo lunghi né troppo corti (tutti sotto i sei minuti, nessuno sopra i tre), buon dosaggio tra le parti cantate e quelle strumentali. Solo che la innovatività è davvero altrove.

Intendiamoci: questo può non essere un difetto per una band che ha creato tanto. Anzi, ha creato i canoni dell’heavy metal.

Torniamo alla domanda di partenza: perché i Judas Priest non si ritirano? Ecco una seconda risposta: perché, e Firepower lo dimostra, è difficile trovare un altro classico che possa prenderne il posto per davvero. Di fronte a tante algide clonazioni, ben venga un gruppo di anziani di valore, purtroppo neppure troppo arzilli.

Judas Priest, e sai cosa ascolti.

 Da ascoltare (e da vedere):

Lightning Strikes

Spectre

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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