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Milano trema: il poliziesco violento che racconta la strategia della tensione

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La vendetta privata di un commissario sullo sfondo della Milano violenta dei primi anni ’70, stretta tra delinquenti e terroristi

«Parole. Titoloni sui giornali per due o tre giorni, un funerale in pompa magna e poi articoli sempre più brevi, nelle pagine interne. Sì, dottor Nicastro, sono quello di Novara. Del Buono diceva: un passo dopo l’altro, nella legalità. Lo sa come lo chiamavano? Il commissario buono, senza “Del”. Eppure, tra una settimana o due la gente inizierà a stringersi nelle spalle: inevitabile e fatale come un attacco cardiaco. Bella conclusione. Ma chi l’ha ucciso? Il nostro sistema!».

Queste battute (che citiamo dall’efficace sceneggiatura di Ernesto Gastaldi, scrittore cinematografico e non solo di rara prolificità), recitate a un quarto buono dall’inizio del film, danno tutta la misura di Milano trema: la Polizia vuole giustizia (1973), la prima delle due incursioni di Sergio Martino nel poliziesco, che sarà seguito due anni dopo dal violentissimo La Polizia accusa: il Servizio Segreto uccide.

Le recita Luc Merenda, che interpreta il commissario Giorgio Caneparo, riadattato da Gastaldi, con più estetica e meno espressività, dal modello fornito nel ’72 dal commissario Bertone (Enrico Maria Salerno) in La Polizia ringrazia di Stefano Vanzina.

La terrificante sequenza inziale fa capire che tipo di sbirro sia Caneparo e su quali dinamiche sia impostato il film: il commissario uccide a sangue freddo due evasi che prima avevano massacrato i poliziotti che dovevano custodirli e poi, sulla via della fuga, avevano freddato una bambina (la piccola Susanna Melandri, vera e propria baby star dell’epoca). Come a dire che se il poliziotto è duro, decisionista e fascistoide nei modi è perché ha quasi sempre a che fare con dei cattivissimi.

E infatti, il battibecco con il questore Nicastro (il poliedrico Carlo Alighiero, formatosi in teatro e capace allo stesso tempo di calarsi nei personaggi piuttosto schematici e poco sfaccettati del cinema di genere) non lascia presagire nulla di buono, perché Caneparo si prepara a vendicare l’amico e collega Del Buono (l’elegantissimo e compassato Chris Avram), ucciso da un killer mentre seguiva una pista delicatissima.

Per scoprire i colpevoli (e, magari, punirli a modo suo prima che finiscano sotto processo…) Caneparo, sospeso dalla Polizia, si infiltra negli ambienti della malavita meneghina.

Paradossalmente ma non troppo, il Merenda che si finge delinquente e parla milanese stretto risulta più simpatico del Merenda sbirro: per infiltrarsi, dapprima inizia a proteggere una prostituta (la italoargentina Lia Tanzi), dopo aver preso il posto a suon di pedate del pappone originario e, grazie alla raccomandazione dell’ex galeotto Monsùmerda (il tedesco Steffen Zacharias, caratterista celebre per aver recitato negli spaghetti western con Bud Spencer e Terence Hill), entra in contatto col giro che conta. Cioè col Padulo (il raffinatissimo Richard Conte), un elegante giocatore di biliardo che tiene le redini di un’organizzazione criminale dedita alle rapine. Durante questa presa di contatto con gli ambienti duri della lìgera, Caneparo conosce Maria (l’affascinante Martine Brochard), una hippie fidanzata con uno degli uomini del Padulo, che si rivelerà fondamentale per l’indagine. O meglio, per il compimento della vendetta privata camuffata da indagine.

Assunto come autista dall’organizzazione dopo aver mandato a monte una rapina, conclusasi con un inseguimento spettacolare, Caneparo apprende da uno dei compari (il tostissimo Bruno Corazzari) di essere entrato a far parte non di un semplice giro criminale, bensì di un’organizzazione eversiva che mira a destabilizzare la democrazia per legittimare una svolta autoritaria. «Noi dobbiamo anche seminare il terrore», ghigna il feroce Corazzari durante una fuga rocambolesca, dopo aver freddato una donna incinta con una raffica di mitra nel pancione…

Canepari riesce a sgominare il nucleo operativo dell’organizzazione con il solo appoggio del vicequestore Gianni Viviani (il bravissimo Silvano Tranquilli), l’unico collega in apparenza solidale con lui.

Ma l’inchiesta non si ferma: il commissario, grazie a una soffiata di Maria, scopre che il Padulo ha un’altra, più rispettabile identità: è l’editore bergamasco Salussoglia e, da questi, apprende che l’organizzazione eversiva è ramificatissima, anche all’interno delle forze dell’ordine e che ne fanno parte degli insospettabili. La verità si dipanerà sotto gli occhi di Caneparo nella formidabile sequenza di colpi di scena che anticipano il finale tragico, in cui la giustizia coincide con la vendetta.

Diretto con gran mestiere e ritmo e commentato dalla malinconica colonna sonora dei fratelli De Angelis, Milano trema ripropone sul grande schermo gli umori di quella che fu definita all’epoca la maggioranza silenziosa: quel ceto medio italiano terrorizzato dall’escalation criminale dei primi anni ’70 e dal terrorismo, in quella fase prevalentemente nero.

Non mancano, ovviamente, i richiami alla strategia della tensione, tra l’altro efficacissimi nell’Italia di allora, spaventata dal ricordo del piano Solo e del più recente golpe Borghese, su cui la magistratura iniziava proprio allora ad affondare il bisturi.

Non a caso, l’uccisione di Del Buono richiama in maniera piuttosto esplicita il delitto Calabresi, mentre il ruolo di editore di Salussoglia è un chiaro riferimento a Franco Freda, all’epoca indagato per la strage di piazza Fontana.

Gastaldi, nel distribuire frecciate a destra e a sinistra, riesce a cogliere meglio di altri sceneggiatori lo spirito del tempo: la paura della borghesia italiana che cercava a destra, cioè nelle frange conservatrici della Dc e nella Grande Destra sognata e mai realizzata da Giorgio Almirante, una sicurezza minacciata da un’altra destra.

Certo, è davvero poco per gridare al capolavoro, ma è pur vero che Gastaldi e Martino non avevano l’intenzione di realizzarne uno.

Tuttavia, Milano trema resta, a distanza di oltre quarant’anni, un film d’azione godibilissimo, in cui il capoluogo lombardo, livido e violento, ricorda quello ripreso da Fernando Di Leo. L’autoralità è altrove e infatti Damiano Damiani e Francesco Rosi avrebbero dato due fortissime lezioni di cinema sugli anni di piombo da lì a qualche anno. Ma ciò non toglie che anche pellicole come queste possano fornire ancora spunti insospettabili.

 

 

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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