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La polizia accusa: il servizio segreto uccide

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Le suggestioni del golpe Borghese in un thriller violentissimo e spettacolare. Il poliziesco secondo Sergio Martino

Sgombriamo subito il campo da equivoci: La polizia accusa: il servizio segreto uccide (1975), non è un capolavoro, tranne per gli amanti dei b movie italiani. È un film onesto, pieno di gran belle scene d’azione e di colpi di scena avvincenti, diretto con mano sicura da Sergio Martino, che, proprio con questa pellicola, approccia per la seconda volta il poliziesco all’italiana, inserendosi in un sottofilone particolare: il cinema del golpe, dopo il successo di Milano trema: la polizia vuole giustizia (1973).

Siamo, al riguardo, piuttosto lontani dagli apici che qualche anno dopo sarebbero stati raggiunti da Francesco Rosi con Cadaveri eccellenti (1976) e da Damiano Damiani con Io ho paura (1977). Tuttavia, il tempismo con cui Martino, onesto professionista e autore in quegli stessi anni di alcuni bei gialli all’italiana, riuscì a cavalcare le inquietudini dell’Italia sconvolta dalla strategia della tensione e in pieni anni di piombo, resta degno di nota.

Il riferimento cronachistico immediato di La polizia accusa fu, con tutta probabilità, la seconda inchiesta sul golpe dell’Immacolata, più noto come golpe Borghese, iniziata dalla Procura di Roma nel 1974 su impulso di un’informativa firmata dal capitano dei carabinieri Antonio La Bruna e dal suo capo, il generale dell’esercito Gianadelio Maletti, che all’epoca era alla guida del famoso (e famigerato) Ufficio D, la sezione del controspionaggio del Sid (Servizio informazioni della difesa), il servizio segreto militare. Fino ad allora, cioè fino a prima che Giulio Andreotti consegnasse l’informativa di La Bruna alla magistratura, il golpe Borghese era considerato un tentativo di alcuni reparti dell’esercito e delle forze dell’ordine (in particolare del Corpo delle guardie forestali) legati ad ambienti neofascisti. Con l’inchiesta romana, la musica cambiò, visto che emersero responsabilità non di secondo piano del generale Vito Miceli, all’epoca direttore del Sid in forte attrito proprio con Maletti.

Il processo che scaturì da questa seconda inchiesta sarebbe finito, dieci anni dopo, con un nulla di fatto. Ma le polemiche giornalistiche che derivarono dall’ipotizzata responsabilità dei servizi segreti hanno stimolato sin da subito suggestioni che, va da sé, influenzarono non poco i cineasti. Detto altrimenti: parlare di golpe, anche nella maniera truce con cui lo fece Martino, era un modo per nobilitare il poliziesco, addirittura spostandolo a sinistra e agganciandolo al cinema alto di impegno civile.

La polizia accusa segue uno schema piuttosto semplice, reso tuttavia credibile dalla sceneggiatura solida di Fabio Pittorru e Massimo Felisatti: Giorgio Solmi, interpretato dal bello e duro Luc Merenda, un commissario dalle profonde convinzioni democratiche e dai metodi spicci, si imbatte in una trama oscura mentre indaga su un delitto all’apparenza banale. Assieme a lui indagano i suoi aiutanti: il vicecommissario Luigi Caprara, fidatissimo o quasi (il caratterista e doppiatore romano Michele Gammino), e il maresciallo De Luca, interpretato da Gianfranco Barra, volto noto della commedia all’italiana. La vittima è Vittorio Chiarotti (interpretato dal lecchese Giancarlo Badessi), un elettrotecnico all’apparenza insignificante, ucciso con un attizzatoio nella villa dove poco prima ha ricevuto una prostituta, Giuliana Raimondi (la bella Paola Tedesco) detta La Tunisina. Ma la sequenza iniziale del film, una mattanza impressionante di militari di alto grado, tra cui un generale, mette sull’avviso lo spettatore che la Polizia accusa non è un giallo normale.

Infatti, il commissario Solmi, mentre piantona la villa del delitto e rintraccia La Tunisina, si imbatte in Remo Ortolani (il marchigiano Carlo Martinetti, attore, doppiatore e autore longevo, anche artisticamente) faccendiere e confidente dei servizi segreti, che tenta di recuperare dei nastri con registrazioni scottanti. Proprio in questi nastri, che contengono le intercettazioni scottanti dei colloqui tra il generale Eugenio Stocchi (il romano Gianni Di Benedetto, altro caratterista militante del b movie italiano), morto in maniera più che violenta all’inizio del film, e un sedicente avvocato Rienzi – che in realtà è l’industriale Martinetti, fatto spiare dalla moglie per una faccenda di corna – c’è la svolta dell’indagine e, quindi, del film.

A questo punto l’inchiesta si complica, perché entrano in ballo i servizi segreti, rappresentati dal capitano Mario Sperlì, interpretato dal bravo Tomas Milian, non più il Curchillo degli spaghetti western e non ancora Er Monnezza e il Nico Giraldi dei poliziotteschi trucidi. Da questa svolta in avanti, La polizia accusa diventa una sequenza di depistaggi, di delitti cruenti e di colpi di scena, montati con gran ritmo da Eugenio Alabiso e commentati in maniera magistrale dalla colonna sonora di Luciano Michelini. Una menzione particolare la meritano anche i killer ingaggiati dai cattivi: il trucido Giovanni Andreassi detto Massù (Giovanni Andreassi, già volto noto degli spaghetti western) e il suo complice (Carlo Gaddi). Solmi deve vincere le titubanze del giudice istruttore Michele Mannino, interpretato da un austero Mel Ferrer, e, con l’aiuto della giornalista Maria (la bella ma un po’ slavata Delia Boccardo), arriva alla verità: i militari uccisi e l’industriale erano in combutta per tentare un colpo di Stato e sovvertire la democrazia. Il resto non lo raccontiamo, perché comunque il film è ancora oggi in grado di regalare qualche emozione e merita di essere rivisto.

Quel che finora abbiamo detto, tuttavia basta a far cogliere le allusioni alla vicenda processuale, allora solo agli inizi, del golpe Borghese: tra queste, i legami tra gli industriali e i militari e, appunto, il gioco sporco dell’intelligence.

La trama del film, un gran bel b movie, diventerà lo schema con cui si cimenteranno, anche a livelli più alti, i registi che tenteranno di mettere, con risultati alterni, su pellicola il tema del colpo di Stato.

Ancora oggi non sappiamo quanto siano fondate le accuse rivolte all’epoca ad alti gradi dell’esercito, delle forze dell’ordine, dei servizi ecc. Ma il filone golpista, di cui La polizia accusa è un film più che rappresentativo, testimonia la capacità dei registi dell’epoca, anche gli artigiani come Martino, di sintonizzarsi sulle passioni collettive di quei terribili e bellissimi anni ’70.

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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