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L’archivio segreto dell’Esercito? Una balla neoborbonica

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Iniziò Angelo Manna con un’interrogazione, fatta in perfetta buonafede, all’ex sottosegretario alla Difesa Clemente Mastella. Da lì in avanti la leggenda nera relativa a un archivio militare inaccessibile che rigurgiterebbe di documenti “proibiti” sulla repressione del brigantaggio è stata tramandata sino ai giorni nostri. In realtà è una bufala, che neppure i revisionisti più accaniti sembrano prendere sul serio…

Gira come un tormentone e può capitare di ascoltarla spesso: è una delle trovate con cui alcuni seguaci del revisionismo sudista cercano di legittimare l’idea che lo Stato abbia qualcosa da nascondere sul processo di unificazione nazionale.

Per essere più precisi, quella parte dello Stato, cioè il Regio Esercito, che per circa un decennio fu impegnato nella repressione del brigantaggio al Sud.

Ci siamo capiti: è la solita vecchia storia della presunta colonizzazione brutale del Mezzogiorno, iniziata con un certo stile letterario da Carlo Alianello e aggiornata da Pino Aprile come genocidio, non solo culturale, delle popolazioni del Sud.

La fucilazione del brigante Petruzzello

Torniamo alla trovata: esisterebbe presso lo Stato Maggiore dell’Esercito (o, secondo altre versioni, presso il Ministero della Difesa), un fondo archivistico di parecchi faldoni – secondo alcuni circa duemila – custodito più che gelosamente e praticamente inaccessibile agli studiosi. È quasi superfluo spiegare che questi documenti riguarderebbero l’attività dell’Esercito al Sud nel decennio postunitario.

Ed ecco servito sul classico piatto d’argento un bel sillogismo: se questi documenti sono secretati è perché c’è qualcosa da nascondere a tutti i costi e se c’è qualcosa da nascondere a tutti i costi è perché è qualcosa di cui vergognarsi.

L’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito

La presunta segretezza, inspiegabile per documenti relativi a fatti di circa centosessant’anni fa, è l’ideale corollario della teoria del complotto su cui si regge una buona parte del revisionismo antirisorgimentale sudista.

Detto altrimenti, chi sostiene l’ipotesi di un vero e proprio genocidio, non solo di fatto, ai danni delle popolazioni dell’ex Regno delle Due Sicilie, segue pressappoco questo schema di ragionamento: ci sono stati molti massacri durante la repressione del brigantaggio (vero) perché ci sono le carte che li comprovano (altrettanto vero); ma i veri numeri di questi massacri non possiamo saperli perché le carte che li proverebbero sono state nascoste o distrutte.

Se questo fondo di archivio segreto esistesse, costoro farebbero tombola. Ovviamente molti credono che esista e non è raro sentire alcune argomentazioni risibili. Ne citiamo una, che viene spesso ripetuta in pubblico: «Conosco un militare che…». Sembra quasi di risentire il ritornello di un successo di Elio e Le Storie Tese: «Ciao come va/mio cuggino ha fatto questo e quello/l’autoscontro e il calcioinculo».

Ma questa leggenda metropolitana non è solo orale. Infatti, c’è una traccia documentale importante che risale al crepuscolo della Prima Repubblica. Ci riferiamo all’interrogazione parlamentare di Angelo Manna.

Il focoso Angelo Manna

Era il 4 marzo 1991: da lì a poco sarebbero emerse le destre di governo e sarebbe esplosa Tangentopoli.

Ma in quel momento, alla Camera dei Deputati agonizzavano, forse inconsapevolmente, le vecchie forze politiche nel VI governo Andreotti. Tra queste il Msi, in cui Angelo Manna era stato eletto come indipendente.

Giornalista d’assalto, prima sulle colonne de Il Mattino e poi con Il Tormentone, trasmissione cult dell’emittente campana Canale 21, Manna fu anche un bravissimo poeta e uno storico di buone capacità, innamorato cotto della sua Napoli e precursore della causa neoborbonica.

Difficile capire da chi e come il focoso intellettuale napoletano avesse appreso dell’esistenza di questo fondo segreto. Fatto sta che fu l’oggetto di una sua interrogazione, depositata il 25 settembre del 1990.

In quest’interrogazione, Manna chiedeva lumi su questo archivio al ministro della Difesa. Ovviamente a modo suo. Un modo che anticipa lo stile (e la sostanza) del revisionismo antirisorgimentale, rinverditi da dieci anni a questa parte dalle performance editoriali dei giornalisti Lorenzo Del Boca e Pino Aprile.

Pino Aprile

Eccone un saggio:

«Il sottoscritto chiede di interpellare il Ministro della difesa, per sapere quando vorrà degnarsi di consentire il libero accesso agli archivi dello stato maggiore dell’esercito italiano che nascondono tuttora, in almeno duemila grossi volumi, documenti fondamentali di natura non già soltanto militare (ordini, dispacci, rapporti relativi a movimenti di truppa e a d esiti di combattimenti, di imboscate e di raid repressivi e briganteschi), ma anche e soprattutto di natura squisitamente politica: istruzioni riservate e anche cifrate del governo subalpino a profittatori, luogotenenti, prefetti, ufficiali superiori, sindaci , comandanti di guardie nazionali ; verbali di interrogatori eseguiti nelle carceri, nelle caserme, presso le sedi municipali dagli aguzzini in uniforme che si coprirono di disonore nell’infame periodo delle leggi marziali e delle sbrigative esecuzioni capi – tali; soffiate di spie e informazioni di agenti segreti ai militari, distinte di requisizioni e di espropri illegittimi con l’indica – zione delle vittime; elenchi dettagliati dei preziosi, dei contanti e degli oggetti d’art e o sacri razziati nelle case, nei banchi pubblici, nei palazzi reali e nelle chiese ; concessioni, infine, di premi, cattedre universitarie o liceali, sussidi una tantum o vitalizi a rinnegati, prostitute, delinquenti comuni (camorristi) e profittatori dai nomi altisonanti trasformati in «eroi puri» e beatificati o divinizzati nei sacri testi della agiografia risorgimentale».

C’è più o meno tutto, come il lettore più addentrato in certa letteratura revisionista può constatare.

Ma c’è dell’altro: Manna dava per scontato che su quei documenti di cui chiedeva lumi vigesse «il più ostinato e pavido top secret» e che quindi «i grandi custodi di quell’epoca di scelleratezze e di razzie che prese il nome di “Risorgimento italiano”» volessero, praticamente da sempre, imboscare le carte per nascondere le malefatte dei militari piemontesi.

Avrebbe dovuto rispondere il big democristiano Virginio Rognoni, che copriva il dicastero della Difesa. Al posto suo si presentò in aula il sottosegretario Clemente Mastella, non ancora alchimista della Seconda Repubblica ma comunque astro rampante della Dc beneventana. Mastella, che a differenza di Manna non è mai stato un grande oratore, si limitò a una risposta laconica, che riportiamo per intero:

Clemente Mastella

«L’accesso ai documenti sul brigantaggio custoditi presso lo stato maggiore dell’esercito, contenuti in circa 140 raccoglitori e non duemila, come si legge nell’interpellanza, è libero. Unica formalità di rito è una richiesta scritta preventiva, necessaria per regolar e l’afflusso dei visitatori. I documenti son o già stati utilizzati per realizzare opere edite».

Chi aveva ragione? Forse Mastella. Il seguito del dibattito è spassosissimo: Manna diede del pappagallo a Mastella e continuò a prodursi in saggi dietrologici. Poi, la discussione prese una piega inaspettata in seguito all’intervento coltissimo e pacato del democristiano piemontese Adolfo Sarti, allora vicepresidente della Camera, che coordinava i lavori al posto della mitica Nilde Iotti.

Grazie a quest’intervento, l’attacco alla sciabola di Manna si trasformò in un duello in punta di fioretto. Poche le fonti documentali citate dal deputato missino. Tra queste, un vecchio articolo di Giorgio Bocca sull’Espresso della seconda metà degli anni ’80.

Siamo alla fumisteria più completa.

Vediamo un po’ perché Mastella aveva ragione. Il Fondo Brigantaggio dell’Archivio Storico dello Stato Maggiore della Difesa esisteva ed esiste tuttora. E oggi come allora è accessibile, seppure con qualche difficoltà, che i responsabili dell’Esercito e del Ministero della Difesa non negano, ma anzi spiegano in una apposita pagina web.

Eccola: vai alla pagina web del regolamento dell’Archivio Storico dello Stato Maggiore della Difesa.

Ma c’è di più: tra le «opere edite» a cui si riferiva il Mastella sottosegretario ce ne sono alcune piuttosto vecchie. Anche più vecchie del compianto Manna.

È il caso di Il Brigantaggio e l’opera dell’Esercito Italiano dal 1860 al 1870, di Cesare Cesari, pubblicato dalla Ausonia nel 1920 e ristampato nel 1928 e di cui è in circolazione una ristampa anastatica dell’editore bolognese Alberto Forni che risale al 2002.

La copertina della ristampa anastatica del volume di Cesare Cesari

Cesari, guarda caso, era un tenente colonnello che lavorava, guarda caso, presso l’Archivio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito e che compì la sua ricerca dettagliata basandosi sugli incartamenti del Fondo Brigantaggio lì custoditi.

Il volume di Cesari contiene resoconti piuttosto dettagliati e non è affatto demonizzatore del brigantaggio, di cui sottolinea invece gli aspetti sociali più complessi. Quasi una lettura gramsciana, se non fosse per il ruolo di ufficiale dell’esercito del suo autore.

Anche Cesari lamenta il problema di reperire fonti per una ricerca completa. Ma non nel senso complottista ripetuto come un mantra dai neoborbonici: si limita a denunciare la sciatteria degli archivi e la conseguente dispersione dei materiali.

La copertina del catalogo di Piero Crociani

Una guida piuttosto completa ai contenuti del Fondo è quella redatta da Piero Crociani, storico militare e collaboratore della Sapienza di Roma.

Crociani, a differenza di Cesari, è uno studioso civile e in tale veste ha potuto non solo accedere al Fondo Brigantaggio, ma ordinarlo e resocontarne tutti i materiali in Guida al “Fondo Brigantaggio” pubblicato nel 2004 a cura dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore della Difesa. Il volume è un catalogo ponderoso di 467 pagine, redatto per agevolare gli studiosi, data la difficoltà della consultazione diretta del Fondo. Una difficoltà, si badi bene, non dovuta all’esigenza di nascondere i classici panni sporchi, ma di tipo logistico: troppo poco il personale, non troppo ampio lo spazio per la consultazione. Un po’ quel che capita nelle sedi dell’Archivio di Stato.

Su questo catalogo si è espresso in maniera inequivocabile Virgilio Ilari, accademico di vaglia, già professore di Storia del diritto romano a Siena e alla Sapienza e poi docente di Storia delle istituzioni militari alla Cattolica di Milano e presidente della Società italiana di Storia militare.

Virgilio Ilari

Ilari, tra l’altro mentore accademico di Crociani è molto chiaro: «Il catalogo è il frutto di un lavoro di anni condotto con pazienza certosina proprio per agevolare gli studiosi. Tutto quel che vi è elencato corrisponde rigorosamente ai contenuti del Fondo».

Ovviamente non ci volevano Ilari, Crociani e, prima di loro, Cesari per smentire certe tesi complottiste, perché gli stessi autori neoborbonici si sono resi conto dell’impraticabilità di certe affermazioni. Ad esempio, Gennaro De Crescenzo nel suo Noi, i Neoborbonici!, una sorta di Mein Kampf degli antirisorgimentalisti, si limita a citare l’interrogazione di Manna senza prendere posizione.

Gennaro De Crescenzo

Pino Aprile, invece, nel suo recente Carnefici punta su un’altra leggenda metropolitana: il cosiddetto forno delle carte in cui sarebbero stati distrutti i documenti più compromettenti per il Regio Esercito e per Casa Savoia. Sull’infondatezza di questa tesi, ci riserviamo di soffermarci in seguito. Al momento questo passaggio dovrebbe bastare a far capire che si preferisce dire che certi documenti non esistono perché sono stati distrutti anziché affermare che certi documenti esistono ma sono tenuti ben nascosti. Tanto più che lo stesso Aprile afferma nello stesso libro di aver consultato molti documenti militari.

Ma c’è da dire un’altra cosa: sull’Esercito, soprattutto sugli errori e sulle malefatte dei suoi alti papaveri si sa di tutto e di più e gli archivi militari si sono dimostrati generosi su avvenimenti gravi ma molto più recenti. E allora, perché coprire vicende di centosessant’anni fa? L’unica pezza d’appoggio resta il citare fantomatici militari o funzionari che potrebbero testimoniare di questa segretezza. Peccato solo che non se ne conosca l’identità. Sono, appunto, come il cuggino di Elio: passepartout buoni per sdoganare leggende metropolitane Ne citiamo una per concludere: «Mi ha detto mio cuggino che una volta in discoteca/ha conosciuto una tipa/che però non si ricorda più niente/e alla fine si è svegliato in un fosso/tutto bagnato/che gli mancava un rene».

Per saperne di più:

L’interrogazione di Angelo Manna:

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Una riflessione sul libro di Cesare Cesari

Da ascoltare (e da vedere) per farsi due risate:

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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