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Ora vi racconto chi erano davvero i briganti

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Lo storico Giuseppe Ferraro fa il punto sul brigantaggio: non fu solo una rivolta contadina né una ribellione contro gli “invasori piemontesi”. Fu un fenomeno complesso in cui c’era di tutto ma con una spiccata prevalenza dell’aspetto criminale. I briganti, spiega ancora il giovane studioso calabrese, autore di una ricerca importante e pluripremiata, non furono il prodotto dei guasti del Risorgimento perché c’erano già prima e diedero filo da torcere anche ai Borbone. C’è di peggio: a dispetto di tante teorie che ancora oggi vorrebbero distinguerli dai mafiosi, i presunti ribelli del Sud somigliavano un po’ troppo in tanti comportamenti alle organizzazioni criminali. Tocca correre ai ripari, perché questo “revisionismo” fa solo il gioco di chi vuole assolvere le classi politiche del Mezzogiorno, che sono le vere responsabili dei problemi attuali…

Facciamo ancora il punto su quel rebus storico che, a cinquant’anni circa di distanza dalla pubblicazione del classico di Franco Molfese, resta sostanzialmente irrisolto: il brigantaggio.

La ripresa d’interesse verso questo argomento (e verso quello, non del tutto connesso, della Questione Meridionale) questa volta è avvenuta al di fuori della produzione accademica e senza la mediazione di una classe politica consapevole, perché tale non può essere considerata la pattuglia di consiglieri regionali che hanno proposto, prima alla chetichella poi tra le polemiche, l’istituzione della Giornata della memoria per le vittime meridionali del Risorgimento alle assisi del Sud, esclusa quella calabrese.

In questa situazione si è imposta una certa produzione giornalistica che ha fatto da controcanto alle celebrazioni del 150esimo dell’Unità d’Italia, rispolverando e mescolando alla meno peggio i vecchi motivi polemici antirisorgimentali di matrice borbonica con le letture gramsciane.

Questo pastone, a tratti raffazzonato e risultato ai lettori più accorti poco digeribile, ha avuto una sua indubbia efficacia commerciale (si pensi al successo di Terroni di Pino Aprile) ed è andato oltre il manistream, dato che editori come Utet (che ha pubblicato le varie controstorie di Gigi Di Fiore) lo hanno attenzionato.

Va da sé che il nocciolo centrale del filone sudista – è improprio definirlo meridionalismo – è la lotta al brigantaggio, variamente presentata come genocidio, quantomeno tentato, o repressione di una sorta di protolotta contadina. Quest’ultima è la tesi sostenuta da Di Fiore, forse l’autore più credibile (o il meno incredibile, fate voi) di questo revisionismo, nel suo Briganti. Controstoria della guerra contadina nel Sud dei gattopardi (Utet, Milano 2017). Eppure che le cose non stiano come le presenta il bravissimo inviato de Il Mattino, è evidente.

«Sulla base delle ricerche più serie ed approfondite risulta difficile presentare il brigantaggio come un movimento, anche inconsapevole. La realtà di questa vicenda storica è così complessa da rendere impossibili conclusioni così nette».

Parla Giuseppe Ferraro. Cosentino, classe ’85, Ferraro è un giovane storico contemporaneista, autore di una di queste ricerche serie e approfondite sul brigantaggio, che ha ottenuto due importanti riconoscimenti (il Premio Spadolini e il Premio D’Attorre), è culminata in un bel libro Il prefetto e i Briganti. La Calabria e l’unificazione italiana (1861-1865) (Le Monnier, Firenze 2016), anch’esso beneficato dal Premio Troccoli-Magna Graecia.

Dunque il brigantaggio non fu un movimento.

Direi proprio di no: gli mancano quelle caratteristiche di unitarietà di fondo che consentono di identificare un movimento in quanto tale. Fu un fenomeno importante nella sua tragicità e complesso, costituito da elementi anche contraddittori tra loro.

Quali sono questi elementi?

C’era senz’altro una componente ideologizzata, di matrice legittimista, che dividerei in due filoni: i legittimisti dinastici legati ai Borbone, quindi motivati a livello più direttamente politico, e i legittimisti ecclesiastici, che si opponevano al carattere laico e a certi tratti anticlericali del Risorgimento. Questi due filoni, ben distinti sul piano concettuale, a volte coincidevano e a volte no. Dal legittimismo borbonico discende anche il tratto militare del brigantaggio: molti fedeli alla dinastia napoletana provenivano in gran parte dai quadri del disciolto esercito duosiciliano e fornirono la strategia e le tattiche alle bande in cui entravano o che dirigevano. Poi c’era di sicurouna componente contadina, delusa dalla mancata distribuzione delle terre. E un ruolo particolare lo rivestirono anche gli ex garibaldini e vari esponenti del mondo democratico, che erano i delusi dalla piega conservatrice presa dal Risorgimento. Ma, almeno a livello numerico, prevalse l’aspetto delinquenziale, come testimoniano le molte sentenze di condanna a carico di briganti per reati comuni, commessi al di fuori dalle esigenze della guerriglia o della presunta protolotta di classe. Mi pare chiaro, perciò che è perlomeno difficile considerare il brigantaggio solo come una forma di insorgenza e, men che meno, un movimento, anche se è chiaro che al suo interno vi furono delle insorgenze. È stato, piuttosto, un fenomeno composito un contenitore in cui coesistevano elementi diversi e inconciliabili.

Alcuni dei quali, il malcontento contadino e il brigantaggio, non erano prodotti esclusivi dell’Unità nazionale.

Proprio no. I Borbone furono impegnati non poco nella repressione del brigantaggio sin dalla riconquista delle province napoletane e affrontarono anche l’emergenza sociale che esplose in seguito all’eversione della feudalità. Per ciò che, nello specifico, riguarda il brigantaggio, mi permetto di ricordare alcuni episodi della storia calabrese. Nel 1816 fu costituita con decreto regio una commissione che doveva redigere liste di soggetti che giravano armati nelle nostre campagne e si erano resi responsabili di atti contro la forza pubblica. Nel 1824 fu inviato in Calabria il colonnello Del Carretto per arginare le bande dei briganti, in particolare l’attività della banda di Ippolito Crocco di Spezzano e di quella di Giovanni Roma di Caloveto. Inoltre, re Ferdinando II nel 1844 dovette negoziare la resa del brigate Giosafatte Talarico che imperversava nella Sila con una pensione di sei ducati e una villa ad Ischia e dovette estendere questo trattamento di favore ai membri della sua banda. Come si vede da questi esempi, la storia è molto più complessa di come alcuni ce la vogliono raccontare.

Ma è possibile rintracciare un filo rosso che colleghi il brigantaggio prerisorgimentale a quello postunitario?

Non è facile e credo che, purtroppo, l’unica lettura che possa consentire certi collegamenti tra il prima e il dopo sia quella delinquenziale. E dico questo senza voler criminalizzare il fenomeno nel suo complesso. Si può affermare, con buoni margini di sicurezza, che l’Unità d’Italia e la conseguente rottura del vecchio ordinamento abbiano inasprito una situazione preesistente, anche nell’immediata prossimità dell’invasione garibaldina (si pensi ai tanti decreti di Francesco II contro i briganti) e si può ipotizzare che molte bande, già operative, si fossero gonfiate e fossero diventate più pericolose in seguito alla disfatta dell’esercito borbonico.

In Il prefetto e i briganti c’è la ricostruzione integrale della corrispondenza, istituzionale e privata, del prefetto Enrico Guicciardi, che governò Cosenza per cinque anni di seguito e fu in prima linea nella repressione del brigantaggio.

Guicciardi è una figura interessantissima: non fu solo un funzionario di alto livello, ma anche un patriota con importanti trascorsi militari. Perciò era dotato di una sensibilità politica e di una visione strategica non comuni. Il suo carteggio, che ho avuto il piacere di riscoprire e pubblicare, ha un’importanza unica, direi praticamente inedita nella storia del brigantaggio: da questa corrispondenza, che lui intratteneva sia a livello istituzionale sia a livello privato, emerge un’interessante lettura del problema, in cui c’era, ovviamente, la preoccupazione per l’ordine pubblico, che andava praticamente costruito quasi da zero nella Calabria Citra. Ma c’era anche la constatazione del bisogno impellente di riforme sociali per alleviare le condizioni dei ceti più deboli e assicurare solide basi, materiali e di consenso, al nuovo Regno.

D’accordo. Però Pietro Fumel, che operò le repressioni su ordine di Guicciardi, è una sorta di bestia nera per l’immaginario sudista, che lo considera un macellaio o, peggio, una sorta di SS avant la lettre.

Fumel era un militare dell’epoca che agiva in una situazione di emergenza, senza precedenti a cui richiamarsi né mezzi, militari e giuridici idonei per affrontarla. Agì con una particolare efficienza, soprattutto dal punto di vista organizzativo, visto che organizzò la Guardia Nazionale, trasformandola in una colonna mobile di tipo militare. Ottenne enormi risultati, rispetto a quasi tutte le altre Province, dove la Guardia Nazionale si dimostrava insufficiente o collusa, al punto da rendere necessario l’intervento dell’Esercito.

Ma gli eccessi e gli abusi non mancarono.

Ci furono degli eccessi e la repressione fu durissima. Però non fu compiuta con la sola intenzione di reprimere, ma con l’idea che questa durezza fosse un sacrificio necessario per preparare un futuro migliore. Poi non dobbiamo dimenticare due cose. La prima è il successo che ebbe Fumel presso vasti strati dell’opinione pubblica, anche popolare, segno che il problema del brigantaggio era sentito non solo dagli abbienti e dai ricchi. La seconda è che Fumel e Guicciardi subirono non pochi strali polemici dai cosiddetti manutengoli, cioè i proprietari terrieri che avevano rapporti a dir poco particolari coi briganti, a volte anche di collusione vera e propria. Questi grossi proprietari, inoltre, avevano solidi legami politici o facevano politica in prima persona. Perciò erano in grado anche di influire sul dibattito pubblico dell’epoca, anche in maniera piuttosto sporca.

Il cosiddetto manutengolismo, perseguito in seguito anche dalla legge Pica, getta più di un’ombra sulla tesi del brigantaggio come protolotta contadina.

Certamente: in quel contesto di trasformazione del sistema i briganti facevano comodo a determinati gruppi di potere agrario. Potevano, ad esempio, fungere da braccio armato contro i concorrenti e tenere a bada i contadini. Soprattutto, la grave emergenza costituita dai briganti poteva servire a spostare l’attenzione delle classi dirigenti sull’ordine pubblico e a mettere in secondo piano la questione delle riforme. Che è quel che accadde in molti casi. E c’è da dire che Guicciardi, con una forte lucidità, si era reso conto anche di questo aspetto e non a caso tentò di portare avanti un piano articolato di riforme e di opere pubbliche parallelamente alla repressione. E forse la sua opera risultò più efficace rispetto a quella di altri suoi colleghi proprio per questo.

C’è un altro aspetto delicato, che riguarda i rapporti tra brigantaggio e criminalità organizzata. Finora, in quella giovane disciplina che è la Storia delle organizzazioni criminali sembra prevalere il filone interpretativo, ad esempio l’opera di Enzo Ciconte, che distingue in maniera netta i due fenomeni, fin quasi a contrapporli. Come stanno le cose in realtà?

Si tratta di due fenomeni ben diversi, che presentano tuttavia delle analogie dal punto di vista dei comportamenti, degli atteggiamenti e delle pratiche. Ad esempio, la tipologia dei reati: estorsioni, rapine, omicidi, spesso efferati, sequestri di persona. Per di più il fenomeno del manutengolismo ribadisce la non estraneità dei briganti ai sistemi sociali dell’epoca. 

Eppure quest’immagine dei briganti come ribelli antisistema si è imposta con prepotenza di nuovo nell’immaginario collettivo.

Certa letteratura giornalistica, che impropriamente possiamo chiamare revisionista, è fiorita in un momento di grave crisi del nostro Paese ed è chiaro che alcune letture criminalizzanti del passato hanno la funzione consolatoria di rendere il presente meno duro perché cercano un capro espiatorio e responsabilità negli altri. In questo caso, nei presunti comportamenti coloniali del Nord. È una lettura che reputo pericolosa, perché assolve le attuali classi dirigenti del Sud dalle loro non poche responsabilità.

Ma il mondo accademico ha delle responsabilità in questo fenomeno culturale o no?

Aver trascurato l’alta divulgazione, che in Italia fanno in pochi, è una responsabilità non secondaria.

E c’è un rimedio?

A mio avviso si può partire da una collaborazione tra il mondo della scuola e le istituzioni culturali come la Società di Storia Patria e le tante, prestigiose accademie che ancora resistono in Italia. E, naturalmente, coinvolgere di più le Università. È un cammino non facile e non privo di ostacoli. Ma va comunque tentato: la storia è il patrimonio comune più prezioso e va divulgato con la dovuta cura.

 (a cura di Saverio Paletta)

Per saperne di più:

La recensione de Il prefetto e i briganti

 

 

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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