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Il web è il pericolo più grande. Parola di Morozov

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Il sociologo bielorusso considerato l’anti Zuckenberg al Master in Intelligence dell’Unical: la politica corra ai ripari, ne va della nostra libertà

«Scusate, se parlo in italiano per più di venti minuti vado in tilt». Eppure Evgenij Morozov ha sfoderato un italiano invidiabile anche da sin troppi italiani per quattro ore di fila, nel corso della sua lectio magistralis al Master in Intelligence dell’Università della Calabria diretto da Mario Caligiuri, dopo i saluti del rettore Gino Mirocle Crisci.

A sentirlo parlare, il sociologo bielorusso risulta inquietante. No, sostiene con pacata fermezza, non è vero che la rete ci salverà. No, non è vero che il web e i social network aumentano la nostra libertà e le nostre possibilità.

È vero, o almeno sembra più vero il contrario: le connessioni estreme della rete (che promettono di crescere e ramificarsi oltre misura), si traducono in limiti, a volte anche pesanti: della nostra privacy, delle nostre libertà, della nostra sicurezza.

La rete, che ha esteso a dismisura le nostre possibilità di comunicare, ha aumentato anche le forme di controllo sociale.

Il Morozov pensiero non è qualcosa di sconosciuto. Anzi, dalle teorie dello studioso bielorusso sono derivati dei best seller come L’ingenuità della rete. Il lato oscuro della libertà di Internet (Codice, Torino 2011) e il recente Silicon Valley: i signori del silicio (Codice, Torino 2011), giusto per citarne due.

Difficile, allora, anche per il loro stesso autore, sintetizzare il tutto (fare un Bignami, come si diceva una volta) in poco tempo. Tuttavia, lo studioso è riuscito a delineare i punti chiave della propria elaborazione. Vediamoli.

Punto primo: la libertà, per essere effettiva, presuppone il pluralismo. La rete, invece, da venti anni a questa parte, presenta fenomeni di accentramento. Sono le concentrazioni finanziarie che ruotano attorno alle multinazionali del web, siano esse piattaforme di servizi (Google, Amazon), social network (è quasi superfluo citare Facebook e Twitter) o media alternativi (è il caso delle cineteche e discoteche virtuali, come Youtube e Spotify).

Al riguardo, Morozov è stato chiarissimo: «La logica delle piattaforme digitali è profondamente cambiata poiché dall’ottimizzazione della vendita della pubblicità si è passati al perfezionamento dell’intelligenza artificiale, attraverso l’utilizzo dei nostri dati che cediamo in cambio dei servizi gratuiti del web».

I due passaggi sono piuttosto chiari: l’egemonia nella raccolta pubblicitaria come presupposto per la creazione di un oligopolio concentrato che va oltre le semplici istanze commerciali e in cui il deep learning e l’intelligenza artificiale giocano un ruolo centrale.

Punto secondo: questo processo non è solo economico, ma ha fortissime ricadute politiche, anzi è potenzialmente politico esso stesso.

Infatti, ha ammonito Morozov: «Bisogna essere consapevoli che la concentrazione del potere nelle società tecnologiche ha enormi conseguenze sul piano economico, politico e del lavoro di intelligence». Il quinto territorio geopolitico, cioè il cyberspazio, è territorio di lotta e di caccia come tutti gli altri.

Detto altrimenti: assieme (e dietro) ai soggetti economici, operano soggetti politici ben precisi. E infatti, ha spiegato lo studioso: «gli Stati Uniti dal 1989 hanno utilizzato la globalizzazione per creare le condizioni per lo sviluppo delle aziende di Silicon Valley che adesso rappresentano il settore più importante della loro economia. Non a caso, sin dagli anni Sessanta e Settanta erano state poste le premesse per il colonialismo tecnologico. In Italia la Olivetti aveva creato P101, il primo pc al mondo, e in Francia era nato Minitel. Gli Stati Uniti hanno distrutto la concorrenza creando le condizioni dell’attuale dominio tecnologico».

Da questa riflessione discendono due conseguenze. La prima: il meccanismo politico-finanziario delle multinazionali (americane e cinesi) della rete premia solo chi era già forte, anche a causa della debolezza, più politica che finanziaria, dei competitori geopolitici. Puntuale Morozov: «La strategia europea è profondamente sbagliata perché si concentra sui dati e non sulle infrastrutture e l’intelligenza artificiale. Infatti, in Europa si intende contrastare l’espansione del web con le regole burocratiche: la privacy, l’antitrust, la tassazione. Non è la strategia corretta. In Europa negli ultimi 30 anni si è sviluppato un modello teorico che mette al centro il consumatore e non i cittadini reali in quanto titolari di diritti, senza alcun pensiero strategico sul ruolo delle tecnologie». Inoltre «le company digitali hanno approfittato della crisi economica e della crisi di visione della politica e questo spiega lo sviluppo del capitalismo dal 1989 al 2008, dove le company di Silicon Valley hanno assunto il predominio».

Punto terzo: il predominio tecnofinanziario e quindi geopolitico innescato dai new media e dalla new economy ha pesanti ricadute anche nella vita quotidiana. È il caso delle fake news, che sono la versione evoluta delle bufale del vecchio giornalismo. Queste, spiega il sociologo bielorusso «ci sono sempre state, ma adesso è cambiata la velocità con la quale circolano. Il processo è intenzionale perché viene impostato per catturare l’attenzione in modo da massimizzare il numero dei clic, in quanto negli ultimi trent’anni abbiamo posto la pubblicità al centro del sistema economico e sociale». Gli esiti in termini di disinformazione di massa sono visibilissimi.

Meno visibili i pericoli di questo meccanismo, che, come già accennato parte dalla raccolta pubblicitaria e culmina nell’intelligenza artificiale: «I servizi del web continueranno a rimanere gratis probabilmente per poco, cioè fin quando le società avranno necessità di profilarci. Poi, pretenderanno di essere pagati». Questa dinamica spiega inoltre il motivo per cui molte di queste multinazionali sopportano perdite non indifferenti, valutate in miliardi di dollari annui: potrebbe essere solo un sacrificio indispensabile per la conquista totale del mercato.

Un sacrificio economico in cambio di un potere economico esponenziale di cui ci sarebbero già le avvisaglie: «Le aziende più quotate al mondo – ha detto – sono quelle dell’economia digitale che rappresentano l’unico settore che dà l’impressione che il capitalismo continui a funzionare». E ciò spiega come mai i fondi sovrani e altre entità finanziarie continuino a scommettere sull’hi-tech: «.Gli investitori pensano che queste società possano ulteriormente  espandersi in altri settori, come la difesa (l’esercito statunitense ha stipulato un accordo con Google per l’uso dei droni), la sanità (il governo della Gran Bretagna utilizza i dati di 3 milioni di pazienti ottenuti senza consenso), i trasporti (le grandi città usano sistemi di intelligenza artificiale per il controllo del traffico)».

Quanto questo processo storico sia politico non è ancora chiaro. Tuttavia, ha insistito Morozov, «Google ha più lobbisti di Goldman Sachs e controlla il dibattito pubblico, finanziando direttamente e indirettamente i maggiori esperti americani di privacy».

A proposito di privacy, inquieta non poco la nuova prassi cinese del social credit, che si basa sulla raccolta dei dati dei cittadini e sul loro trattamento attraverso appositi algoritmi per verificarne l’affidabilità sociale, politica ed economica dei cittadini.

Punto quarto: alla luce di quanto spiegato da Morozov anche buona parte della narrazione delle multinazionali, secondo cui le piattaforme di servizi, l’e-commerce e i social sarebbero il frutto delle invenzioni di geni solitari nei garage di Palo Alto, può essere tranquillamente archiviata tra le fake news.

È tutto opera di un insieme di forze e poteri, che spesso hanno davvero poco a che fare con l’informatica.

Come uscire dall’impasse? Chiaro che la risposta a un problema politico non può che provenire dalla politica.

«Le company digitali hanno approfittato della crisi economica e della crisi di visione della politica e questo spiega lo sviluppo del capitalismo dal 1989 al 2008, dove le company di Silicon Valley hanno assunto il predominio», ha chiarito ancora lo studioso bielorusso. Perciò, è la logica conseguenza, «i cittadini sono stati ridotti a consumatori virtuali. Arriverà presto il momento in cui questa condizione verrà in qualche modo pagata: con i soldi, con la libertà, con i dati o con la democrazia. O con tutte queste cose insieme». Ma una via di fuga c’è: «Occorre creare un sistema in cui socializzare i dati, coinvolgendo cittadini, università, imprese, città, avendo presente che è fondamentale il controllo delle infrastrutture. Per fare questo occorrono investimenti pubblici, come quelli effettuati dalla Difesa americana negli anni Sessanta per creare internet, senza tenere conto del mercato. La strategia è quella di creare un nuovo modello di raccolta e di utilizzo dei dati di proprietà pubblica».

Un programma minimo, ma che forse si è ancora in tempo a realizzare. Prima che sia troppo tardi e che dal cyberspazio si passi al cyberpunk: gli scenari alla Matrix è meglio vederli al cinema che subirli nella realtà.

 

 

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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