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Un addio con rimpianto ad Arrigo Petacco

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Scompare a 89 anni il grande giornalista ligure. Si apre un altro vuoto nella cultura italiana

Chiunque (tranne forse gli ideologizzati e i millennials) abbia desiderato di fare il giornalista non può non essersi imbattuto, anche per caso, in qualche libro o, alla meno peggio, in qualche articolo di Arrigo Petacco.

 Sì, lo sappiamo: il grande giornalista-storico se n’è andato il 3 aprile nella sua casa di Portovenere alla non tenera età di 93 anni. Lo sappiamo perché ce l’hanno raccontato i coccodrilli, piuttosto ripetitivi, lanciati in rete un po’ da tutti.

Sappiamo anche che fu un cultore della storia e un autore prolificissimo, al limite della grafomania. Sappiamo inoltre che diresse La Nazione e Storia Illustrata.

Ma questa che leggete non è una notizia, né, tantomeno, un coccordillo. È un necrologio, crediamo anche un po’ sofferto, perché se Petacco non ci fosse stato (o se chi scrive non l’avesse mai letto, neanche per sbaglio) L’IndYgesto non esisterebbe.

Da dove cominciare per ricordarlo? Un piccolo indizio ce lo forniscono due suoi libri: le biografie di Joe Petrosino e di Cesare Mori. Erano gli anni ’70 e molte delle cose di mafia erano semisconosciute, al punto che una consistente fetta dell’opinione pubblica minimizzava il fenomeno della criminalità organizzata.

Ecco, parlare del poliziotto americano che sfidò la mano nera a inizio ’900 e che in questa sfida ci rimise la pelle, da vero e proprio protomartire dell’antimafia, e raccontare senza peli sulla lingua la biografia del prefetto che, su mandato di Mussolini, mise a soqquadro la Sicilia per ridimensionare i capimafia (in buona parte riuscendoci), non era davvero poco.

Era la rottura di un tabù. E non fu la prima. La più corposa Petacco la operò come storico del fascismo, di cui si occupò in maniera scomodissima, sia per i fascisti sia per gli antifascisti, a partire dalla metà degli anni ’60.

In questo caso, l’etichetta di divulgatore sta un po’ stretta al grande giornalista ligure. Come stava stretta a chiunque, in quel periodo, si occupasse del ventennio mussoliniano, a partire da Montanelli che ne scriveva un po’ dappertutto, attirandosi gli strali della cultura ufficiale, intrisa di antifascismo militante.

Una divulgazione storica per moderati, quella di Petacco? Proprio no. Era storia pura, scritta da un giornalista con una chiarezza di linguaggio sconosciuta ai professionisti del settore. Occuparsi di fascismo fuori da certi steccati – quelli rabbiosi dell’egemonia culturale dell’epoca e quelli rancorosi dell’antifascismo militante – in maniera imparziale era difficilissimo, per la vicinanza agli avvenimenti e alle passioni, feroci e contrapposte, che ne erano scaturite. E forse solo un giornalista poteva mettere le mani su quella grossa ferita dell’immaginario collettivo perché solo un giornalista, per statuto professionale, poteva occuparsi di argomenti che toccavano troppo da presso persone vive.

Il contributo di Petacco, che seppe rompere felicemente quel velo, sottile eppure durissimo, che separa il giornalismo (ci riferiamo al grande giornalismo) dalla storiografia, fu preziosissimo.

Capace di rendere commestibili persino i logaritmi al lettore meno ferrato, il giornalista ligure normalizzò l’approccio alla storia senza avere la pretesa, tipicamente accademica, all’ultima parola. Ma soprattutto fu capace di raccontare in maniera convincente e avvincente tutti gli avvenimenti di cui si occupò, fossero fatti di cronaca nera o grandi misteri del passato, dalla Sindone all’esecuzione dei Romanov.

L’avvento di Internet non lo aveva trasformato in fuoricorso: dalla sfida della rete e della globalizzazione si era chiamato fuori per tempo. Meglio, per lui e per i superstiti della sua generazione, diventare classici che far la fine dei dinosauri.

Forse non è un caso che la scomparsa di questa generazione coincida con la crisi del giornalismo, che è innanzitutto una crisi di autorevolezza, soprattutto oggi che l’editoria, incurante dei numeri in calo, sforna tonnellate di libri e riviste per tener dietro ai ritmi feroci imposti dal web.

Magari, risfogliando qualcuno dei libri o dei vecchi articoli di Petacco ci ricorderemo che, fino a non troppo tempo fa, è esistita una disciplina delicatissima, che in pochi sapevano affrontare, chiamata giornalismo.

 

 

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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