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Il compleanno triste dell’Italia

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Ormai anche San Patrizio è più popolare dell’Unità d’Italia

Lo Stato unitario è sotto attacco soprattutto al Sud, dove il malessere raggiunge picchi stratosferici

Ma l’idea di Nazione è in crisi ovunque, a causa dell’infatuazione per le “piccole patrie”, come ricorda catalana

Non ce ne siamo quasi accorti: il compleanno laico dell’Italia è passato alla chetichella, quasi dimenticato da quelle stesse autorità civili che pure avrebbero dovuto spendere qualche parola, specie in un momento difficile come questo.

L’ultimo che sia stato celebrato – tra l’altro con molta retorica, poca convinzione e un pizzico d’ignoranza – quello del 2011, si è risolto in un’occasione ghiotta per l’editoria: quella che ha risvegliato il filone revisionista antirisorgimentale e quella che, per rispondere alla prima, si è affidata agli storici professionisti per divulgare (e approfondire) di nuovo la storia dell’Unità nazionale.

Una schermaglia che si è autoalimentata per far girare le rotative e si è nutrita essenzialmente di due cose: il malessere dei meridionali e la profonda ignoranza storica dei più giovani. Anche di quelli che, sulla base dei titoli, avrebbero dovuto sapere qualcosina in più.

L’ultimo compleanno, invece, è stato coperto dalla rievocazione necrofila del sequestro Moro ed è stato scavalcato da San Patrizio.

Ci fa così male essere Nazione? Ormai la minoranza rumorosa che considera il Risorgimento una forzatura violenta della storia si è spostata a Sud e cerca agganci col Movimento 5Stelle, il nuovo padrone della piazza, perché dia un peso politico reale a desideri politici di cui non si calcolano neppure minimamente le conseguenze.

I più “moderati”, invece sostengono che l’Italia, in realtà non è mai stata una Nazione. Non come la Francia, che lo è diventata sin dalla fine del Medioevo, non come l’Inghilterra, che avrebbe fatto questo salto di qualità sin dagli albori dello scorso millennio, subito dopo l’invasione dei normanni.

Siamo sicuri che sia davvero così? L’Italia, piuttosto, non è “naturalmente” una Nazione allo stesso modo in cui non lo sono Francia, Inghilterra e Spagna. Per più motivi.

Soprattutto perché in Europa (per fortuna) non esistono popoli etnicamente puri. Non è tale quello francese, in cui coesistono da sempre elementi celtici, latini e germanici e, da circa un secolo e mezzo, anche nordafricani ed asiatici. Non lo è quello inglese, in cui sul sostrato celto-latino si sono innestati elementi germanici e nordeuropei, a tacere del fatto che Londra è la metropoli più multietnica e poliglotta del mondo. Non lo è quello spagnolo, che è il risultato di un mix ancora più curioso tra celtiberi, latini, goti e arabi, più una forte componente ebraica.

Nel caso italiano questa non naturalità si nota di più solo perché lo Stato unitario è più giovane rispetto agli altri.

È il caso di aggiungere che l’“artificialità” della Nazione è anche una grossa fortuna. E ne spieghiamo subito il perché: l’idea che popolazioni accomunate dalla stessa parlata e dotate di culture simili dovessero avere un destino unico e uguale per tutte ha eliminato la bellicosità permanente tra vicini di casa, che invece ha insanguinato per secoli intere contrade.

Tra tutti i processi di unificazione nazionale il nostro Risorgimento è stato quello più “low cost”, in termini di vite umane. E questo anche se si volesse includere nella conta il tragico decennio di repressione del brigantaggio, in cui alcuni improvvisati “revisionisti” vorrebbero invece leggere l’antefatto dei genocidi del XX secolo.

L’Italia, in altre parole, non ha mai subito quel che hanno subito le sue sorelle: niente guerre di religione, niente guerre civili, niente traumi rivoluzionari, che sono costati circa 15 milioni di vite umane nell’arco di quattro secoli. Un’emorragia pesantissima in un’Europa che sfiorava i 200 milioni di abitanti.

In compenso, da questa “nazionalizzazione” rapida e tardiva ci abbiamo guadagnato: siamo usciti dalla marginalità geopolitica e, in meno di un secolo, abbiamo centuplicato gli indici, e abbiamo raggiunto, anche nell’arretrato Sud, un livello apprezzabile di qualità della vita.

Al contrario, e questo andrebbe ricordato a chi cerca di importare nel Mezzogiorno l’idea della “piccola patria”, il Sud è regredito di nuovo quando l’Italia, in seguito al sistema delle autonomie e al regionalismo, è diventata meno Nazione perché lo Stato è diventato meno presente e capillare e si è deresponsabilizzato nei confronti di una parte consistente della sua popolazione.

E, a proposito di piccole patrie: ne vedete davvero una che goda di ottima salute? Forse in Europa solo la Repubblica Ceca non se la passa malaccio. Tutte le altre, invece, si sono rivelate dei bluff: all’iniziale ascesa economica è seguita una certa stagnazione, perché le piccole dimensioni inchiodano le Nazioni “bonsai” a un cabotaggio provinciale. Così è accaduto, per fare due esempi, a Slovenia e Slovacchia, dove sono riapparse tensioni tra minoranze etniche che si credevano superate.

A chi giova, allora, tirare coltellate alla Nazione, a tutte le nazioni?

La vicenda della Catalogna – che aveva comunque le caratteristiche della piccola patria, molto più di quanto non le abbiano la Lombardia, il Veneto o la Sicilia – ha ribadito ancor di più l’inconsistenza di questa idea tutta postmoderna: l’indipendenza era desiderata solo da una minoranza rumorosa e prepotente ma lasciava indifferenti od ostili i più.

Dire di più significherebbe sconfinare nella dietrologia. Ma non meraviglierebbe sapere che dietro l’attività visibile degli indipendentisti catalani abbiano operato lobby non dissimili da quelle che hanno operato dietro le quinte negli ex satelliti dell’impero sovietico o, più di recente, nei nostri paesi.

La partita che si gioca contro le Nazioni è davvero grossa, perché riguarda il futuro dell’Ue, che potrebbe diventare o gli Stati Uniti d’Europa, cioè uno Stato federale i cui membri sono gli attuali Stai nazionali, oppure una sorta di Europa delle macroregioni, desiderata soprattutto da chi vede la fine del primato della politica come una benedizione.

La differenza non è di poco conto: nel primo caso, avremmo comunque un organismo politico, nel secondo, invece, una specie di caricatura del Sacro Romano Impero, una forma di neofeudalesimo dominato dalle banche e da potentati economici non sempre preclari.

Per questo occorre quantomeno diffidare da certi virus culturali, che prendono piede anche in zone insospettabili.

Ciò detto, buon compleanno Italia, e tante scuse a San Patrizio.

Saverio Paletta

 

 

 

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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