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Caso Bellomo, non è solo una questione di minigonne

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Birritteri lo difende: «Pensate a quel che accade in Iran». Ma la tesi non regge e i vertici del consiglio vogliono la sua testa: «Non è equilibrato»

Forse stavolta il rischio che cane mangi cane c’è per davvero e la suprema magistratura amministrativa, anche per non finire nel mirino dell’opinione pubblica – che teme le caste ma le vitupera quando non deve averci a che fare – rischia di dover espellere il pugliese Francesco Bellomo.

A disgrazia avvenuta, i censori si sono moltiplicati, soprattutto sul web: c’è chi dice che certe cose si sapevano già, chi parla di yuppismo barese anni ’80 e chi urla allo scandalo.

E c’è chi tenta di far capire che la vicenda del consigliere di Stato potrebbe essere la punta d’iceberg di un sistema molto più radicato.

È il caso dell’amministratore di un gruppo Facebook molto seguito dagli aspiranti magistrati, in larga parte frequentatori delle scuole di specializzazione, che ha giustificato la rimozione di alcuni post dal gruppo con una motivazione che inquieta: «Siccome ho ricevuto intimidazioni che neanche lontanamente potete immaginare, e siccome mi è stato fatto presente che nei riguardi di alcuni utenti che hanno espresso il loro parere in maniera “offensiva” presto saranno presi provvedimenti legali, ho ritenuto opportuno, per senso di responsabilità e protezione nell’interesse di tutti, mio compreso, evitare ogni ulteriore discussione sull’argomento, tenendoci fuori da queste situazioni».

Già, forse l’autore di questa frase, che lascia capire sin troppe cose, ha ragione.

Ma una domanda è lecita: è possibile tenersi fuori da situazioni come quella in cui è finito, anzi si sarebbe andato a ficcare, Bellomo?

Finché erano il Fatto Quotidiano e Dagospia a parlarne, qualche dubbio lo si poteva legittimamente coltivare. Ma dopo che ne ha scritto l’ottima Virginia Piccolillo, una delle firme più dure del Corriere della Sera, non ci sono storie. Non si parla più di giustizialismo o di gossip: il problema c’è tutto ed è quantomeno etico, forse tale da tracimare il pur grave aspetto disciplinare.

Non si sa se Bellomo, di cui Alessandro Pajno, il presidente del Consiglio di Stato, ha chiesto la testa, sia ancora sicuro di sé come si è mostrato con i cronisti del Corrierone, che gli chiedevano di esprimersi sulla brutta faccenda che lo riguarda: «È solo una vicenda di costume. Datemi la possibilità di contro-esaminare chi mi accusa e usciranno dall’aula piangendo per le menzogne che hanno detto».

Sarà, ma il bando in cui il magistrato ora sub judice indicava i criteri per l’erogazione della borsa di studio agli eletti non è una menzogna. E, con tutta probabilità, i documenti pubblicati da tutti, incluso il di solito prudente Corrierone, non sono dei falsi (al massimo potrebbero esserlo nei contenuti, ma questo si potrebbe provare solo se Bellomo, che ha la denuncia facile, querelasse per falso ideologico). E Pajno, che ha chiesto la massima sanzione, non sembra uno sprovveduto.

Semmai appare debole la difesa impostata da Luigi Birritteri, magistrato siciliano di lunghissimo corso e già vicecapo di gabinetto nel Ministero della Giustizia, che si è incaricato di tutelare il collega sotto attacco durante la seduta del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, dove si è svolto il procedimento a carico di Bellomo.

Quest’ultimo avrebbe imposto alle borsiste un determinato abbigliamento (cioè le minigonne di cui ha riso mezza Italia)? Nessun problema o quasi, secondo Birritteri: «Pietro Ichino nel suo trattato del 2003 affronta proprio il problema del dress code e dice: “Accade che il datore di lavoro chieda al prestatore il rispetto di disposizioni circa l’abbigliamento o l’aspetto personale”. È chiaro che l’obbligo del prestatore di lavoro è perfettamente identico all’obbligo contrattualmente assunto da un borsista».

Se si parla di diritto, non c’è da essere troppo sicuri della chiosa di Birritteri: c’è lavoro e lavoro e una borsista che dovrebbe occuparsi di problematiche giuridiche non è una hostess o una ragazza immagine e, in ogni caso, le compressioni della libertà individuale – tra queste la libertà nella cura dell’aspetto – che si giustificano nel caso di una prestazione d’opera o, ancor più, in un contratto di lavoro subordinato, non stanno né in cielo né in terra per una borsa di studio.

Peggio che andar di notte per la parte più libertaria dell’arringa di Birritteri: «Viviamo brutti tempi, mi preoccuperei più che delle minigonne delle giuste preoccupazioni delle hostess dell’Air France. Sapete perché hanno protestato? Perché la compagnia ha ripreso i voli per Teheran e non hanno apprezzato le hostess. La circolare interna della compagnia ha richiesto loro l’obbligo di indossare pantaloni, una giacca lunga e di coprire la testa e i capelli con un velo al momento dell’uscita dall’aereo. Preoccupazioni esattamente opposte. Ora dico: forse dovremmo preoccuparci di più di chi ci vuole mettere il burqa e il velo in testa anziché contestare un dress code». Già. Peccato solo che le norme, religiose ma anche giuridiche di uno Stato sovrano, riconosciuto nella sua attuale forma dalla Comunità internazionale, quindi anche dalla Francia, siano una cosa piuttosto diversa dai criteri imposti da una struttura privata nell’ambito di un rapporto che non è di lavoro.

Probabilmente il magistrato agrigentino non ha trovato nulla di meglio. E ora la palla, cioè la decisione finale, passa all’Adunanza generale del Consiglio di Stato.

Quanto a Bellomo, ha ragione da vendere su una cosa quando dice che la sua «sarebbe solo una vicenda di costume». Già, ma il costume, per la categoria dei magistrati, in un momento di crisi che li ha resi custodi, oltre le loro funzioni e i meriti di molti di loro, della legalità e della pubblica amministrazione, è tutto. E il Consiglio di Stato sta per pronunciarsi sulla congruità al ruolo ricoperto, non su altre ipotesi, che al momento non interessano.

Ma l’aspetto di puro costume non riguarda il solo Bellomo, che non può né deve diventare un capro espiatorio, perché i comportamenti che gli sono stati contestati non li avrebbe praticati da solo. E c’è da chiedersi se le aspiranti magistrate sapessero che, per una borsa da 3mila euro (forse prelevati dalle costose quote versate dai loro colleghi di corso, evidentemente non appartenenti alla razza eletta vagheggiata dal bando), Bellomo non avrebbe potuto pretendere di discettare sui loro compagni di vita, comportamenti privati o altro. In nessun caso, comunque, farebbero una bellissima figura, sebbene meritino tutta la comprensione che dev’essere data a chi è parte debole in una vicenda troppo più grande di loro.

Se la vicenda fosse solo di costume, spiace dover contraddire di nuovo Birritteri: tra la prepotenza di chi pretende di coprire le donne a tutti i costi e quella presunta di chi, invece, le vuole spogliare, è difficile dire cosa sia peggio.

Per saperne di più:

Il Fatto Quotidiano

Il Corriere della Sera-1

Il Corriere della Sera-2 (articolo di Virginia Piccolillo)

Dagospia 

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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