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Sanremo, cosa c’è dietro le cafonate di Ultimo?

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Il cantautore romano si è ribellato in maniera a dir poco eccessiva. E rilancia l’ennesima polemica contro giornalisti ed addetti ai lavori. Ma siamo sicuri che questa polemica sia così spontanea o, piuttosto, non sia stata “ispirata” da qualche accorto spin doctor?

Ora che la caciara post sanremese è finita, vale la pena di farsi due domandine, le uniche su argomenti “che restano” di un Festival di cui di solito, almeno da un decennio a questa parte, non resta quasi nulla.

Al netto delle divagazioni politiche, care a chi vuole buttare tutto in caciara per giocare a chi grida di più, val la pena chiedersi: gli “esperti”, giurati d’onore e giornalisti, servono davvero? La risposta è sì, con buona pace del focoso Ultimo e della stagionata Loredana Bertè. E servono proprio per controbilanciare gli eccessi e le distorsioni che immancabilmente derivano da decisioni solo popolari.

La proclamazione del vincitore a Sanremo

Detto questo, possiamo anche ammettere che la giuria d’onore fosse composta da radical-chic che, per dirla con Sgarbi e D’Agostino, hanno creato un “contropotere” e lanciato un bel siluro a Salvini (che, guarda caso, tifava per Ultimo) premiando Mahmood, il giovane trapper italo-egiziano.

Possiamo ammettere anche che tra i quattrocento giornalisti della sala stampa solo un’esigua minoranza sapesse davvero qualcosina di musica (ma questo non è un problema dell’Ordine professionale, bensì delle redazioni, che spesso selezionano a casaccio, e di chi concede gli accrediti).

Ma il problema non si sposta di una virgola: sulla musica, anche su quella che si rivolge a tutti, il popolo non può essere l’unico “sovrano”, così come non può esserlo sull’economia o sulle opere ingegneristiche. Il perché è presto detto: scrivere una canzone, anche una canzonetta, arrangiarla, suonarla e interpretarla non è da tutti così come non è da tutti impostare una manovra di bilancio o una raccolta fondi o costruire un ponte.

Mahmood, il vincitore di Sanremo 2019

Con buona pace di chi vede nel plebiscito (e quindi nel televoto, che è la pratica plebiscitaria più pop e “user friendly”) la panacea di tutti i mali, occorre notare che il “popolo”, anche nella musica, esercita già in abbondanza la sua particolare “sovranità”: lo fa come ascoltatore, come spettatore e come consumatore. Alla fine dei conti, è proprio il consenso popolare che in questo caso si esprime attraverso il consumo, a decretare il successo e la durata di un artista.

Proprio per questo, pretendere di azzerare il giudizio critico dei “competenti” è una pretesa assurda. Ma siccome il Festival di Sanremo è lo specchio del Belpaese, c’è da dire che ridurre il tutto al televoto è un’assurdità simile a quella di chi qualche mese fa voleva far fuori i tecnici del Ministero dell’Economia.

Gli “esperti” e i “competenti” servono proprio a tutelare quelli bravi come Ultimo (che resta bravo, sebbene si sia dimostrato cafone). E forse occorre ricordare le passate polemiche su alcune edizioni del Festival, accusate di essere egemonizzate sin troppo dai telepupilli della De Filippi per ribadire l’importanza delle giurie non solo popolari.

Da sinistra, Claudio Baglioni, Virginia Raffaele, Claudio Bisio

Già: che fine farebbe uno come Ultimo di fronte al solo voto solo popolare? A che gli servirebbe il suo background di studente del prestigioso Santa Cecilia davanti a un ipotetico arrembaggio delle nuove leve neomelodiche, forti (e lo testimoniano i numeri degli store digitali e delle pitattaforme online) di un consenso popolare genuino, sebbene di livello artistico decisamente più basso?

No, gli esperti vanno attaccati, anzi criticati, solo se non sono all’altezza del loro ruolo, non perché esistono.

Nel caso di questo Festival appena concluso, ci sarebbe che ridire anche su di loro. Ma non perché abbiano premiato un trapper milanese di origine araba, che comunque è entrato nello spareggio finale grazie allo stesso “popolo” che ha premiato Ultimo, ha sostanzialmente bocciato Arisa e Cristicchi e spinto la Bertè ai margini del “cerchio magico”. Ma perché non è uscita dalla loro bocca nessuna dichiarazione che ci si sarebbe attesa da un esperto degno di tale nome.

Ad esempio, qualche Solone da tastiera si è meravigliato del fatto che Mahmood abbia recitato un verso in arabo e si sia riferito al Ramadan. Ma nessuno gli ha ricordato che i Tazenda nel ’91 esplosero cantando in sardo, che è un dialetto così dialetto da fare lingua a sé e che nei decenni molti cantanti sanremesi hanno infarcito di anglicismi e francesismi le loro canzoni.

Ultimo sul palco dell’Ariston

L’unico “esotismo” di Mahmood, che nessuno degli “esperti” ha notato, è nella tecnica canora, basata sull’epiglottide, come da tradizione araba (e che, c’è da dire, nel contesto trap funziona bene), non nel fatto che un cittadino italiano parli la lingua paterna o si riferisca a concetti chiave della sua religione come fanno tanti altri cittadini di religione islamica. Già: quale esperto ha ribadito questi concetti banali?

Al netto di tutto questo, resta una questione di buone maniere, quelle che Mahmood ha dimostrato e che Ultimo si è messe sotto i piedi. I due hanno un dato in comune: la provenienza da quartieri popolari. Ma c’è modo e modo di uscirne.

Davanti allo spettacolo indecoroso viene quasi da rimpiangere il vecchio estabilishment bacchettone che imponeva regole a dir poco ferree ai suoi big, nel linguaggio e nello stile. A furia di sentirli parlare in italiano passabile e muoversi con accettabile eleganza, ci siamo scordati che Albano proviene dalla Puglia rurale e che la buonanima di Claudio Villa era un reuccio delle borgate. Eppure nessuno di loro si fece mai scappare un’imprecazione in pugliese, un “anvedi” o un “’tacci”. Ipocrisia mediatica di stampo democristiano? Forse. Ma pur sempre preferibile agli insulti lanciati da un moccioso a persone che – bene o male – facevano il loro lavoro. Ma potrebbe esserci di peggio: siamo davvero sicuri che le esternazioni di Ultimo siano state spontanee e non siano state, invece, il frutto di qualche spin doctor alla Casalino (che crediamo non estranei ai prosaici corridoi delle case discografiche)?

È dietrologia, ne conveniamo.

Ma dopo tutto quello che abbiamo sentito e dopo tutte le pezze volate male, concedetecela. La facciamo sperando di sbagliare ma con la paura di azzeccarci: colpire gli esperti in favore del predominio popolare, significa fare il gioco dei potentati economici e mediatici abituati a condizionare l’opinione pubblica, nella musica come in tante cose della vita dietro alle quali si muovono non pochi quattrini.

Se le cose stessero così, rispondere è sin troppo facile: meglio gli errori di Baglioni e i critici radical chic che il predominio interessato di alcune lobby televisive e di poche etichette discografiche. Finché c’è talento e questo talento viene riconosciuto c’è speranza. Ma ciò non si decreta né nelle urne né a botte di sms.

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Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. [ View all posts ]

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